FENICE: FAUST DIVENTA UN FILM E MEFISTOFELE Č IL REGISTA
Faust, infatti, soprattutto nella versione goethiana, incarna la tendenza umana insopprimibile a desiderare una felicità che vada oltre la nostra dimensione limitata e abbia un carattere di assoluto, di definitivo. Quando dichiara che apparterrà a Mefistofele se questi gli permetterà di godere un attimo di perfetta beatitudine, infatti, vuole che quell’attimo si fermi dilatandosi fino all’eternità , fino ad assorbire la totalità del tempo e dello spazio. Ma a chi rivolgere questa domanda di un significato totale? Oppure si può solo lanciarla nel vuoto, come fa Leopardi, tanto nessuno è in grado di raccoglierla né tanto meno di soddisfarla?
Se si vuole essere logici, la domanda di un bene assoluto può essere rivolto solo a Chi si presenta come tale, al logos divino incarnato che si definisce via, verità e vita. Il Faust di Goethe, invece, sceglie una strada contraddittoria, dal momento che chiede la beatitudine assoluta a chi è solo la negazione ed il nulla; e sarà solo la gratuita misericordia divina a salvarlo dall’abisso.
Ma la grandiositĂ del desiderio di Faust rimane e lo accomuna ad altre due imponenti ed archetipiche figure di sconfitti: Prometeo, condannato ad un eterno supplizio per aver voluto rubare il segreto del fuoco a Giove; e lÂ’Ulisse di Dante, che finisce sommerso dalle onde dopo aver varcato le colonne dÂ’Ercole, per aver voluto cercare il senso del tutto con le sole forze umane.
Di questi temi rimane solo una debole traccia nel “Faust” di Charles Gounod, libretto di Jules Barbier e Michel Carré da Goethe, presentato al Théâtre Lyrique di Parigi il 19 marzo 1859 e dieci anni dopo all’Opéra, con, noblesse oblige, i dialoghi parlati sostituiti dai recitativi e la tradizionale aggiunta di un balletto. Gounod sembra preoccuparsi soprattutto di incontrare il gusto del pubblico parigino congegnando un’opera ricca di charme, di eleganza, di spettacolarità , diretta più che altro a cantare una storia d’amore gentile, appassionata, drammatica, appena screziata qua e là da qualche tocco sulfureo dovuto ad un Mefistofele descritto come uno spregiudicato e beffardo gentiluomo. Al punto che il carattere galantemente francese dell’opera è diventato quasi un luogo comune, così come il famoso giudizio espresso da Verdi (lettera del 5 febbraio 1876 ad Opprandino Arrivabene), il quale, pur fra molti complimenti, finisce per contestare a Gounod, in sostanza, di non possedere fibra drammatica, di realizzare bene il pezzo intimo ma di rendere debolmente la situazione ed i caratteri.
Insomma, il limite maggiore di “Faust” non sembra quello di privilegiare l’amore sugli altri temi: parliamo di teatro, in fondo, non di un trattato di filosofia; se un limite c’è, piuttosto, va cercato, seguendo la traccia indicata da Verdi, nella mancanza di un’intima, solida coesione drammatica, sulla quale prevale la cura attenta ed abile dei singoli pezzi, alcuni dei quali splendidi.
Lo spettacolo in scena alla Fenice, coprodotto col Teatro Comunale di Bologna, è del tutto diverso, salvo per alcuni particolari, da quello presentato dagli stessi artefici nel mese di giugno 2021 sotto la stretta del covid.
L’ultima versione è ambientata in un contesto cinematografico, anche se assolutamente fantastico, all’interno del quale prende corpo anche l’altra idea guida dell’allestimento, quella dell’eterna giovinezza come l’ideale mitico al quale tutti guardano sospirando, in modo particolari attori e attrici che hanno imboccato il viale del tramonto.
Così il regista spagnolo Joan Anton Rechi, coadiuvato da Sebastian Ellrich per le scene, Gabriela Salaverri per i costumi, Alberto Rodrìguez Vega per le luci, immagina un set cinematografico, con tanto di assistenti e telecamere, all’interno del quale si snoda la vicenda.
Al centro del palcoscenico si erge una struttura metallica a simulare appunto un’impalcatura da riprese filmate, che ruota e si adatta alle diverse situazioni teatrali, ed è arricchita da pochi altri elementi: per es., una locandina formato gigante del film di Fellini “Giulietta degli spiriti”; una grande bocca dalle labbra rosse aperta sensualmente ad accompagnare il duetto d’amore fra Marguerite e Faust; la silhouette di due gigantesche gambe inguainate in calze nere a rete nella scena del sabba; il ricorso al colore rosso, sia per mezzo delle luci (per es. ad accompagnare il primo incontro tra Faust e Margherita)sia nella oggettistica (rosso è anche il cuscino con cui Marguerite soffoca la propria povera creatura), a simboleggiare quella passione erotica che Méphistophélès aizza, fomenta, e che, così male ispirata, può solo portare alla distruzione.
Il resto lo fanno le luci e un palcoscenico sempre animato sia dalla buona attitudine attoriale dei solisti, i cui movimenti, specie quelli di Méphistophélès, non sono mai lasciati al caso, sia dalla accurata gestione delle masse, coro e figuranti.
Ambientare lÂ’eterna vicenda dellÂ’inappagato dottor Faust allÂ’interno di un set cinematografico, per definizione il regno dellÂ’invenzione e dellÂ’artificio, permette di mettere a fuoco diversi obiettivi, nel complesso raggiunti da uno spettacolo onesto e chiaro nelle intenzioni, efficace e funzionale nel tradurli in linguaggio teatrale.
Il primo è quello di sottolineare la componente giocosa ed ironica presente nell’opera, evitando interpretazioni monotematiche e quindi per ciò solo riduttive. Il secondo risultato è quello di enfatizzare la creatività di Méphistophélès, che è presentato come il regista del film; una creatività maligna, devastante, ma, nello stesso tempo, vitalissima, dalla quale tutti gli altri personaggi sembrano trarre la ragione e la forza per essere e per agire.
Nello stesso tempo, però, quanto c’è di irreale e di aleatorio in un film, realtà artificiale per antonomasia, aiuta a smascherare la vera natura delle arti di Méphistophélès, che offrono scenari seducenti ma falsi, inconsistenti, destinati ad animare gli esseri umani come burattini manovrati dal burattinaio per poi abbandonarli ad un orribile vuoto. Méphistophélès è un grande, virtuosistico prestigiatore del nulla, che sul nulla costruisce dei miraggi che abbagliano e poi svaniscono: ed è forse questo il messaggio più incisivo che questa messinscena riesce a trasmettere.
Se lo spettacolo funziona a dovere, naturalmente, è prima di tutto perché è molto ben oliata la macchina musicale, che si avvale degli stessi manovratori dell’anno scorso. Frédéric Chaslin, sul podio, offre una lettura godibilissima della partitura, comunicativa e spettacolare, attenta alla bellezza e alla pulizia del suono oltre che alla coesione con il palcoscenico.
Il mattatore, né ci si potrebbe aspettare altrimenti, è il Méphistophélès di Alex Esposito. Il basso bergamasco ha raggiunto in questi anni un livello di maturità artistica eccezionale, che gli permette di scatenarsi in palcoscenico mantenendo sempre un perfetto controllo sia dei propri atteggiamenti sia di una linea di canto che, nella sua ortodossia, non risente della esuberante vena istrionica di colui che deve mantenerla entro i giusti binari. Il suo Méphistophélès, quindi - gentiluomo ironico e scettico in completo bianco nella prima parte e grigio perla nella seconda, diavolo sogghignante e ripiegato su sé stesso in altre occasioni, drag queen nella scena del sabba - oltre a rappresentare un esempio da antologia di come si sta in palcoscenico, ha canto timbrato ed omogeneo, di bel colore e di volume e corposità più che bastevoli, oltre che di duttilità straordinaria per piegarsi ad ogni sfumatura espressiva.
Il Faust del tenore peruviano Ivan Ayon Rivas, appena ventinovenne, si fa apprezzare per un canto intenso e ricco di pathos, capace di comunicare senza particolari artifici il dramma di un uomo che desidera tutto ma ha sbagliato non tanto nella scelta dei desideri (l’amore nelle sue infinite accezioni è sempre al centro della natura umana) quanto nella direzione da prendere per soddisfarli. Questa naturale e non enfatica passionalità del suo stile sembra la qualità maggiore del giovane artista, mentre, se si vuole cercare dei limiti, andranno trovati in un timbro che suona talvolta un po’ agro e nella carenza di quell’involo lirico ed estatico, da raggiungere attraverso un’emissione più morbida e carezzevole, che si richiederebbe in “Salut demeure” e nei momenti sentimentali dell’opera.
Carmela Remigio è l’artista che sappiamo e può essere solo lodata. La sua Marguerite canta bene, con una linea inappuntabile, che si arricchisce di una passionalità intensa ma mai esibita né di puro effetto.
Il Valentin del baritono argentino ma francese di cittadinanza Armando Noguera, mostra una vocalità chiara e tendenzialmente acuta sulla linea dei baritoni-martin di scuola appunto francese. Il pubblico italiano è abituato ad associare alla corda baritonale un timbro più pieno e rotondo, un colore più scuro. Ma questo Valentin, nonostante lo strumento sia di per sé limitato, possiede un certo stile e la giusta nobiltà , raggiungendo un efficace acme emotivo nella scena della morte.
Il Siébel di Paola Gardina è simpatico ed ingenuo, candido ed affettuoso, così come deve essere. Insomma, la caratterizzazione è gustosa e centrata senza mai andare sopra le righe.
Bene in parte William Corrò come Wagner e Julie Mellor come Marthe. Eccellente, more solito, per compattezza e sonorità nonostante le mascherine, il coro della Fenice guidato da Alfonso Caiani.
Al termine della rappresentazione di martedì 26 aprile, un teatro gremito ha salutato festosamente tutti gli interpreti.
Adolfo Andrighetti
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