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“LA GRISELDA”: LA DIFFICOLTA’ A METTERE IN SCENA IL BAROCCO

05/05/2022
“LA GRISELDA”: LA DIFFICOLTA’ A METTERE IN SCENA IL BAROCCODopo “Orlando furioso” (2018), “Dorilla in Tempe” (2019), “Ottone in villa” (2020 e “Farnace” (2021), prosegue l’affascinante viaggio organizzato dalla Fenice attraverso il Vivaldi operistico, tanto sconosciuto quanto ricco di attrattive. E prosegue con “La Griselda”, rappresentata al teatro San Samuele di Venezia il 18 maggio 1735.
Un’interessante ricostruzione dei fatti si legge nelle “Mémoires” di Carlo Goldoni, il quale racconta di aver ricevuto dall’impresario del San Samuele l’incarico di adattare un vecchio libretto di Apostolo Zeno e di aver convinto della bontà dell’operazione il compositore. Nacque così, fortemente rimaneggiato rispetto all’originale, il libretto de “La Griselda” musicato da Vivaldi. Goldoni riferisce, fra l’altro, che la parte della protagonista fu cucita su misura dal compositore per la sua protetta, il contralto Anna Girò, che ne fu la prima interprete al San Samuele.

Griselda è un’eroina senza macchia e senza paura, di cui racconta Boccaccio nella novella che chiude su un tono edificante il “Decameron”. Griselda, infatti, si mantiene devota e fedele al suo sposo, il re di Tessaglia Gualtiero, nonostante questi la sottoponga ad una serie di prove, una più sadica dell’altra, per saggiarne la virtù. Fra l’altro finge di aver mandato a morte i loro due figli e la ripudia a causa delle sue umili origini.
Al termine della trama ingarbugliata, dopo che Griselda ha rifiutato l’unione prestigiosa con Ottone che l’ama perdutamente preferendo la morte al tradimento della fede nuziale, Gualtiero è convinto da prove di così eroica fedeltà a tenersi accanto come sposa Griselda. Nello stesso tempo, benedice l’amore dell’altra coppia che agisce nella vicenda, quella fra Roberto e Costanza, dopo che quest’ultima, nell’agnizione finale, si svela essere la figlia di Gualtiero e Griselda.

Questa rappresentazione al Malibran de “La Griselda”, la prima a Venezia in tempi moderni, è valorizzata dalla presenza sul podio di Diego Fasolis, la cui competenza vivaldiana è indispensabile per permettere una sicura navigazione all’interno del vasto ed ammaliante repertorio operistico del Prete Rosso. Al maestro solo elogi e ringraziamenti per aver messo a disposizione della Fenice la propria autorevolezza professionale per il compimento di questa impegnativa traversata.
NellÂ’intervista contenuta nel programma di sala, Fasolis dichiara di aver chiesto a Fortunato Ortombina di identificare, per il ruolo della protagonista, unÂ’interprete di grande esperienza, con la capacitĂ  di commuovere intensamente colleghi e pubblico; e conferma di essere entusiasta della scelta del mezzosoprano svedese Ann Hallenberg.
In effetti, l’artista dimostra, oltre a indiscutibili doti di sicurezza e competenza sul piano vocale e musicale, anche una squisita sensibilità, che ha modo di esprimersi soprattutto nei recitativi, dipanati con un notevole senso della parola ed un’apprezzabile varietà di tinte, e nei momenti di canto spianato di ispirazione patetica, ove l’interprete, grazie anche alla sua attitudine a sfumare e modulare, raggiunge esiti di autentica poesia. Si pensi soltanto alla brevissima eppure affascinante frase “Sonno, se pur sei sonno”, nel Secondo Atto, avviata con una riuscita messa di voce e conclusa con un’estatica modulazione: un momento memorabile.
Il re Gualtiero del tenore spagnolo Jorge Navarro Colorado mostra di essere adeguatamente pertinente sul piano stilistico e tecnico, il che gli permette di venire a capo con dignità della quasi ineseguibile aria di ingresso “Se ria procella”, ma nel complesso, per un ruolo che Vivaldi valorizza e quindi mette anche duramente alla prova, si richiederebbe uno strumento più ampio e risonante, insomma una maggiore autorevolezza vocale.
Dei due controtenori, impressiona di più l’Ottone del coreano-americano Kangmin Justin Kim, che dimostra un’esuberante sicurezza nella agilità, nelle quali si butta a capofitto con sprezzo del pericolo, grande estensione anche nel grave, volume adeguato e timbro eufonico. Sorprendente ed elettrizzante soprattutto nell’aria di ingresso, “Vede orgogliosa l’onda”, la cui esecuzione ha rappresentato un compendio entusiasmante delle doti sopra citate, è un artista da tenere d’occhio, anche per la straordinaria vivacità con cui sta in palcoscenico.
L’altro controtenore, cioè il Roberto di Antonio Giovannini, pur dimostrandosi all’altezza nei momenti tecnicamente più impegnativi della parte, sconta un timbro non sempre gradevole ed una certa monotonia di esecuzione.
Giustamente molto applaudita la Costanza del soprano Michela Antenucci, che sta bene in scena e mostra una voce sana, rotonda, ben proiettata, gradevole all’ascolto. Inoltre, anche se la coloratura non sembra essere il suo primo punto di forza, l’eccellente esecuzione dell’ultima aria “Ombre vane, ingiusti orrori” le permette di conseguire un meritato successo personale.
Infine, nel piccolo ma strategicamente importante ruolo di Corrado, Rosa Bove si e ci diverte con la sua spigliatezza e la sua ironia.

La messinscena di questa “Griselda” (regia, scene e costumi di Gianluca Falaschi, disegno luci di Alessandro Carletti e Fabio Barettin, drammaturgia di Mattia Palma) conferma la difficoltà a rappresentare oggi - con la ricchezza ma anche il peso di quasi tre secoli di un’evoluzione culturale che ci ha allontanati enormemente da quel punto di partenza - l’estetica barocca, con l’eccezione dell’”Orlando furioso” secondo la regia di Fabio Ceresa, giustamente elogiata dallo stesso maestro Fasolis.
Ancora una volta, il tentativo di estrapolare uno spunto dalla vicenda per attualizzarlo e portarlo ai nostri giorni si dimostra di per sé insufficiente a dare ragione di quella lontana sensibilità, a comunicarla in maniera convincente al pubblico odierno.
Eppure, nella “Griselda” lo spunto c’è, eccome, non c’è bisogno di nessuna forzatura del testo per coglierlo, e il regista non se lo lascia sfuggire: è la descrizione di una condizione femminile che, al di là degli aspetti edificanti messi in luce dal libretto, è facile percepire come soffocata, frustrata da un maschilismo dominante in modo protervo e senza scrupoli. Di qui la descrizione in scena di una società violenta e prevaricatrice, ove gli uomini usano delle donne a piacimento e queste tendono ad accettare come un dato di fatto tale situazione, senza osare metterla in discussione.

Ecco allora, mentre i cantanti al proscenio dipanano le ardue agilità delle loro arie, svolgersi dietro a loro delle movimentate controscene, nelle quali un genere maschile debosciato e depravato mostra il peggio di sé bevendo, barcollando, brancicando e violentando corpi femminili, mentre le donne un po’ si sottraggono e un po’ si concedono, incerte fra il compiacimento e il disgusto, ma alla fine accettando le regole del gioco.
Purtroppo questa scelta apre una ferita insanabile e sanguinante fra ciò che si vede in scena e la musica di Vivaldi, che, con la sua sublime tensione verso una superiore bellezza nella quale le passioni umane si pacificano e si purificano, non può accompagnarsi a scene di ordinaria volgarità senza negare sé stessa.
Così, all’interno dell’impianto scenografico, costituito nella prima parte dell’opera da una struttura muraria che poi si apre nella seconda su una fitta foresta, si assiste a due spettacoli differenti, che nulla hanno in comune tra loro: la parte musicale, che parla di una bellezza alla quale l’uomo aspira nonostante le sue miserie, e quella teatrale, ove tali miserie sono sciorinate contraddicendo in ogni istante ciò che le note suggeriscono. I brutti costumi moderni, inoltre, sono funzionali allo squallore che viene rappresentato, giustamente assecondandolo nel ricreare un’atmosfera di mediocre brutalità.
Il pubblico, che come sempre colma felicemente le sale della Fenice e del Malibran dopo la ripresa della normale attività, ha applaudito ed acclamato con calore e cordialità allo spettacolo di martedì 3 maggio.

Adolfo Andrighetti

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