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La prima rappresentazione assoluta di “Peter Grimes” alla Fenice

01/07/2022
La prima rappresentazione assoluta di “Peter Grimes” alla Fenice“PETER GRIMES”: NON C’E’ PACE, NON C’E’ PIETRA PER FARTI UNA CASA

“Peter Grimes”, la prima opera messa in scena da Benjamin Britten (Londra, Sadler’s Wells Opera, 7.6. 1945, libretto di Montagu Slater da un poema di George Crabbe), mostra quanto il compositore inglese poco più che trentenne fosse già nel pieno possesso di tutti quei talenti di natura creativa e tecnica, che avrebbero accompagnato fino alla fine il suo luminoso percorso artistico: prima di tutto, la sua dolente, partecipe sensibilità per la condizione umana che, pur innocente, subisce l’incomprensione, l’esclusione, la violenza; e poi il suo intuito drammatico, che lo porta a mettere in scena storie avvincenti, ricche di pathos e di forza narrativa.

Questo intuito è sostenuto da doti musicali particolarmente adatte alla rappresentazione teatrale, quali l’eclettismo e la geniale abilità di orchestratore, che gli permettono di ricorrere alle forme, agli stili, alle soluzioni più efficaci per raccontare con le note la vicenda messa in scena. Il tutto porta ad una produzione operistica che sa entrare in sintonia col pubblico con un’energia emozionale ed una qualità di discorso musicale che spiegano il perdurare in repertorio di quasi tutte le opere di Britten.
La storia di “Peter Grimes è quella di un riscatto umano e sociale sempre sognato e mai raggiunto; e, per converso, di un’emarginazione spinta con crudeltà ed ottusità fino alle estreme conseguenze, cioè fino al suicidio del protagonista.
Quest’ultimo è un pescatore rude, aggressivo, sgradevole, che guarda con disprezzo e sufficienza il Borgo in cui vive, al quale però sente di appartenere e nel quale vorrebbe inserirsi come un uomo riuscito, ricco e maritato. Questa ansia di rivalsa verso la sua gente, che lo guarda con sospetto e sfiducia, lo porta a sottoporsi ad un lavoro sfiancante e pericoloso, frenetico e disumano, a causa del quale perdono la vita, a distanza di non molto tempo, due suoi apprendisti, ragazzini miseri e indifesi fatti uscire dall’ospizio degli orfani per essere impegnati in un’attività troppo dura per loro.

È Grimes responsabile delle due morti? Direttamente no, ma l’uomo è manesco, di maniere rozze, si sa come tratta quei poveri orfani, a quali pericoli li espone. Così ragiona la comunità del Borgo, che ha già decretato la colpevolezza di colui che, in realtà, è più povero ed orfano di tutti, perché completamente solo nella sua condizione di essere umano incompreso ed incapace di farsi comprendere.
Dopo la morte del secondo apprendista, infatti, neppure la dolce Ellen, la maestra di scuola che Grimes vorrebbe sposare e gli è sinceramente amica, né l’umano ed equilibrato Balstrode, capitano a riposo di una nave mercantile, possono più essergli di aiuto, mentre gli abitanti del Borgo lo cercano dappertutto per fare giustizia scandendo implacabili il suo nome. E Balstrode riuscirà a sottrarre Peter a quella sinistra caccia all’uomo ma non al destino che grava ineluttabile sul pescatore. Alla fine, infatti, lo inviterà a prendere il largo e ad affondare insieme alla barca. E Peter eseguirà senza un commento, anch’egli convinto che la sua morte sia l’unico fattore di pacificazione e di catarsi per il Borgo. Perché, come canta rivolgendosi a sé stesso: “There is no peace, there is no stone...to make you a home”.

La prima rappresentazione assoluta di “Peter Grimes” alla Fenice si dovrà ricordare soprattutto per la riuscita della parte musicale, animata dalla splendida direzione di Juraj Val?ua, fra i maggiori conoscitori dell’opera di Britten.
Il maestro slovacco sa dare piena e commovente evidenza all’ampio respiro odoroso di salmastro e allo straziante pathos esistenziale raccontati da Britten, raggiungendo livelli di una efficacia evocativa senza pari attraverso la cura sensibilissima ed attenta di ogni dettaglio sonoro ma anche la concertazione sicura e rapinosa dei numerosi pezzi d’assieme. Val?ua prende il pubblico per mano e lo conduce in un viaggio indimenticabile attraverso un mondo sonoro e quindi drammatico di una limpida chiarezza, tanto più avvincente e coinvolgente quanto più trasparente nella sua dolorosa evidenza.
Il secondo protagonista da affiancare al maestro slovacco in un applauso pieno e incondizionato è il coro guidato da Alfonso Caiani. Come fa notare il regista Paul Curran, il coro in quest’opera è un personaggio a tutti gli effetti, cantando duecento cinquantadue pagine di partitura su trecentottanta in totale e partecipando all’azione in altri momenti nei quali non canta.
E la voce del Borgo, nella sua ferocia così ottusa e stolida da apparire quasi innocente, ha trovato l’espressione più efficace e più duttile nel coro della Fenice, sempre pronto a variare toni e colori secondo quanto richiesto dalla esigente partitura in base al succedersi dei vari momenti drammatici.
Peccato soltanto che i coristi non abbiano sempre trovato un’adeguata collocazione in palcoscenico, finendo spesso ammassati sul fondo in raggruppamenti che apparivano alquanto confusi e indistinti. E ciò in contrasto con le intenzioni del regista, che ha dichiarato di non voler trattare il coro come una massa indistinta e di volere, invece, qualora possibile, che i settantaquattro interpreti fossero settantaquattro personaggi diversi, non un gigantesco cantante con settantaquattro teste.

I singoli personaggi, invece, sono ben caratterizzati, secondo un modello interpretativo di stampo tradizionale ma capace di ricreare con chiarezza le varie personalità nel rispetto di quanto indicato dal libretto. A ciò sono d’aiuto gli appropriati costumi risalenti più o meno all’epoca della composizione dell’opera, che debuttò a Londra nel 1945.
I solisti sono tutti funzionali al ruolo loro assegnato e quindi risulterebbe inutilmente pignolo e quasi pedante analizzare le singole prestazioni vocali secondo dei criteri che, fra l’altro, si tende a ricavare da un modello di canto - a sua volta derivato dal belcanto propriamente detto - che è quello adatto all’opera italiana fino a Puccini, mentre qui si vive in un mondo culturale e musicale diverso. Per esempio il tenore Andrew Staples è un eccellente protagonista, dalla vocalità piena e sana in grado di piegarsi ad ogni esigenza interpretativa richiesta dal ruolo, nonostante la tendenza tipica dei tenori anglosassoni e poco gradita ad orecchie latine di sbiancare il suono salendo.
Si potrà però dire che la Ellen Orford del soprano Emma Bell risulta talvolta troppo stentorea e matronale per un personaggio che fa della dolcezza materna, manifestata non solo all’apprendista di Grimes ma a Grimes stesso, la sua principale caratteristica. Tuttavia la sua padronanza della parte e la sua sicurezza vocale sono fuori discussione.
Così il glorioso basso-baritono Mark S. Doss è un Balstrode vocalmente carente, dall’emissione dura e forzata, ma il personaggio viene fuori ugualmente grazie all’esperienza e alla personalità dell’artista.
Fra i comprimari, tutti ben calati nella parte e professionalmente inappuntabili, da sottolineare le ottime prove di Sara Fulgoni (Auntie) e di una celebrità come Rosalind Plowright (Mrs. Sedley), ma brave anche le due nipoti Patricia Westley e Jessica Cale.
Fra gli uomini, si è messo in risalto per efficacia vocale e per l’ottima resa scenica dell’ambiguo, anguillesco personaggio, il baritono Alex Otterburn (il farmacista Ned Keene). Vocalmente incisivo e spigliato in scena il tenore Cameron Becker (il pescatore metodista Bob Boles) e di bel colore il timbro del basso-baritono Laurence Meikle (il carrettiere Hobson). Imponente sia fisicamente sia vocalmente ma vociferante l’avvocato e coroner Swallow del basso Sion Goronwy.
La messa in scena (regia Paul Curran, scene e costumi Gary McCann, luci Fabio Barettin) punta, come si è detto, sulla caratterizzazione accurata dei singoli personaggi, mentre meno riuscita sembra quella del coro; e su un impianto scenografico nudo, stilizzato, costituito da pareti che restringono la scena da ogni parte, anche dall’alto, togliendole respiro e profondità.
Sembra evidente l’intento di creare un ambiente chiuso, soffocante, a rappresentare visivamente l’atmosfera del Borgo, con le sue ritualità sociali ripetitive, i suoi cliché stantii, ai quali Peter Grimes vorrebbe adeguarsi ma ne è respinto. Ecco perché, come osserva giustamente il regista, Grimes non è un eroe: perché la sua battaglia non è per la libertà e la dignità, cui ogni uomo ha diritto, ma per ottenere di essere accolto in quel mondo piccolo e meschino con tutti gli onori del caso.

In una scenografia così concepita, quasi completamente spoglia, svolgono un ruolo importante le luci, molto ben dosate e variate a descrivere le atmosfere dei diversi momenti della vicenda, e talvolta accompagnate dall’efficace effetto delle ombre dei personaggi che si riflettono ingigantite sullo sfondo. Alcune proiezioni, a rappresentare la vastità del mare pacificato e l’imponenza del cielo tempestoso, non tolgono né aggiungono nulla di significativo ad uno spettacolo nel complesso riuscito, pienamente dignitoso, che rispetta partitura e libretto pur non portando contributi di novità all’interpretazione dell’opera
Pubblico festante al termine della serale di mercoledì 29 giugno, anche se qualche spettatore, non solo dei palchi ma anche della platea, ha preferito abbandonare lo spettacolo prima della fine, evidentemente refrattario alle affascinanti magie della coppia Britten- Val?ua.

Adolfo Andrighetti

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