LARGO AI GIOVANI: AL MALIBRAN LA PIECE DEL MOZART UNDICENNE
L’Università di Salisburgo, infatti, coltivava la civile tradizione di allestire nella propria sede drammi di matrice classica scritti da docenti dell’ateneo, interpretati dagli studenti e inframmezzati da intermezzi musicali la cui composizione era affidata a musicisti locali.
In passato questo incarico era toccato anche a Leopold, il padre di Mozart e, nel 1767, giunse il momento del figlio, che compose l’intermezzo “Apollo et Hyacintus”, su testo latino scritto da Rufinus Widl, religioso benedettino e docente all’Università . L’intermezzo era destinato ad accompagnare ed alleggerire la rappresentazione del dramma “Clementia Croesi” (La clemenza di Creso) dello stesso Widl.
La vicenda narrata nell’intermezzo è una rivisitazione, un po’ abborracciata ed edulcorata, del mito di Giacinto, raccontato nel decimo libro de “Le metamorfosi” di Ovidio. Giacinto, il bellissimo giovinetto amato da Apollo, muore a causa della gelosia di Zefiro. Il vento, infatti, incapace di accettare che Giacinto gli preferisca Apollo, devia verso la testa del ragazzo, provocandone la morte, il disco lanciato dal dio. Questi, per consegnare all’eternità la memoria dell’amico, lo trasforma in un fiore purpureo come il sangue colato dalla sua ferita: il giacinto, appunto.
La versione che Widl ci consegna del mito antico è sintetizzata all’osso per le esigenze imposte dalla riduzione musicale e dalla rappresentazione scolastica, ma nella sostanza rispetta la tradizione originale, pur attenuandone – non eliminandone del tutto – la componente omoerotica attraverso l’inserimento di un personaggio femminile, Melia, della quale è innamorato Zefiro, ma che finisce per sposare Apollo.
L’allestimento presentato al Teatro Malibran si avvale della regia di Cecilia Lagorio, mentre scene, costumi, disegno luci sono affidati agli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, nell’ambito di un lodevole progetto di collaborazione fra teatro e scuola che continua a dare frutti apprezzabili già da qualche anno.
Ed in effetti la regista non si lascia sfuggire il parallelo fra le due giovinezze che danno vita allo spettacolo, quella dei suoi artefici, ancora studenti, e quella dei protagonisti sulla scena, tutti – tranne il re di Sparta Oebalus che incarna la classica figura paterna – ragazzi impegnati a confrontarsi e a misurarsi in un gioco frenetico di seduzioni e gelosie.
E così quando si entra in teatro si è accolti da una sorta di laboratorio di arti grafiche: sono gli studenti dell’Accademia che siedono qua e là in platea chini su notes e album da disegno, sui quali scrivono, annotano, tracciano schizzi. Li ritroveremo in palcoscenico durante la rappresentazione, a interagire con i protagonisti sul loro stesso piano, ragazzi con ragazzi che scherzano fra loro, si stuzzicano, si attirano e si respingono; oppure a spostare suppellettili di scena, fra cui le grandi lettere luminose che servono, collocate al proscenio, a comporre parole che sintetizzano e commentano ciò che sta accadendo, come, per esempio: Ars, Timor, Eros, Mors, Pietas e altre ancora; fino a comporre nel finale la scritta Metamorphosis, che indica non solo la fonte letteraria di ispirazione della pièce ma anche il senso ultimo della vicenda e della vita, senso che si trova, almeno secondo la cultura classica, nel cambiamento continuo delle forme vitali.
La presenza degli studenti dell’Accademia in abiti di lavoro macchiati di pittura permette anche di realizzare una contaminazione fra l’oggi e il passato settecentesco, al quale appartengono, seppure con alcuni adattamenti, i costumi dei solisti. Solo Apollo veste abiti moderni, perché la luce e la bellezza armoniosa, che il dio rappresenta, non possono essere limitati all’interno di confini cronologici ma hanno una valenza universale.
Nello stesso tempo l’attività in palcoscenico degli studenti indaffarati conferisce alla messinscena l’aspetto di un laboratorio artigianale, nel quale si lavora, si sperimenta, si costruisce. Un’impressione che è confermata soprattutto dalle prime due scene: un interno con le varie componenti coperte da teli di plastica, come si fa quando in una stanza si imbiancano le pareti o comunque si svolgono dei lavori; e un muro che porta l’effigie di Apollo, sul quale gli studenti si esercitano a tracciare con la vernice scritte e segni grafici.
Col procedere della vicenda le scene si fanno più essenziali e l’attenzione si concentra su ciò che accade più che sul movimento di supporto degli studenti-figuranti. Ben concepita soprattutto la scena finale, mai facile da rendere nelle opere di ispirazione barocca, nelle quali la realizzazione dell’apoteosi conclusiva dovrebbe sfuggire i due rischi opposti della banalità e dell’enfasi. Qui la soluzione vincente è rappresentata da un fondale floreale purpureo, a ricordare non solo la trasformazione del giovane Giacinto nel fiore omonimo, ma anche che il principio della metamorfosi fa sì che la morte non debba essere inevitabilmente l’ultima parola pronunciata sulla vita, ma possa rappresentare, in qualche modo misterioso nel quale è coinvolto l’intervento divino, un’apertura verso nuovi orizzonti. Perché, ci dice la cultura classica, tutto cambia, nulla finisce.
Ragazzi gli studenti dell’Accademia, quindi. E ragazzi, o almeno mossi come tali, anche quasi tutti i protagonisti, che saltano, scherzano, si provocano, secondo una concezione registica che, a partire dalle origini storiche dell’opera che sono scolastiche, è sviluppata con coerenza e con buoni risultati secondo il filone giovanilista.
Tutti i solisti stanno al gioco al meglio delle loro possibilità : a cominciare dal Hyacinthus del controtenore coreano-americano Kangmin Justin Kim, del quale non si sa se ammirare di più la disinvoltura e l’agilità in scena, oppure la sfrontatezza, si passi il termine che vuol esser elogiativo, con cui sciorina i virtuosismi della sua parte. Degli altri due controtenori, Raffaele Pe è ormai un punto di riferimento nella sua corda e dà vita ad un Apollo forse non entusiasmante – ma chissà che non dipenda dalla parte, avara di occasioni per brillare – ma certo autorevole e carismatico come deve essere. Lo Zephyrus di Danilo Pastore, al netto dei suoi bamboleggiamenti infantili che ne fanno un tontolone sciocco, malvagio per un’immaturità quasi patologica, suona corretto ma scialbo sul piano vocale. La Melia del soprano Barbara Massaro brilla ed incanta nei pezzi virtuosistici, mentre in quelli dove il canto si fa spianato in chiave drammatica sembra meno efficace, pur nella correttezza della linea, e sconta un retrogusto un po’ asprigno del timbro. Apprezzabile l’Oebalus del tenore Krystian Adam, capace di conferire un pathos intenso e coinvolgente ai suoi lamenti sul cadavere del figlio Hyacintus.
Tutto questo è reso possibile, naturalmente, dalla bravura e dalla competenza del maestro Andrea Marchiol, fra i maggiori esperti di musica antica, il quale dà pieno compimento sul podio alla sua intenzione dichiarata di “fare in modo che gli orchestrali eseguano semplicemente ciò che è scritto, che è tantissimo”, mettendo in evidenza quelle che lo stesso Marchiol definisce “invenzioni strepitose” presenti nella partitura. L’impressione è che il maestro abbia saputo conferire intensità , brillantezza e compattezza alla musica mozartiana, mettendone in evidenza tutta la bellezza non solo in nuce, ma anche quella già presente. Perché, se l’autore aveva solo undici anni, non va però dimenticato che era un genio, puramente e semplicemente.
Alla serale di martedì 11 ottobre, alla quale si riferiscono queste note, un pubblico che è sembrato partecipe e coinvolto ha riservato allo spettacolo un’accoglienza cordiale e calorosa.
Adolfo Andrighetti