FENICE: SI RIDE E CI SI COMMUOVE CON “LA FILLE DU REGIMENT”
Si tratta di un lavoro scritto in francese per un pubblico francese seguendo gli stilemi dell’opera – comique (a cominciare dai dialoghi parlati ad inframmezzare i pezzi chiusi ed a portare avanti l’azione), per cui il suo esprit è tipicamente transalpino per arguzia e finezza; ma arricchito e vivificato da una felicità melodica ed una cordialità comunicativa tipicamente italiane.
E siccome l’autore è Donizetti, la sua sensibilità fa sì che la vena felicemente spensierata sia attraversata, in un sapiente ed armonioso equilibrio di comico e patetico, da un afflato lirico soavemente malinconico, struggente senza essere straziante, del quale si hanno due esempi indimenticabili nelle arie “Il faut partir” della protagonista Marie e “Pour me rapprocher de Marie” di Tonio.
Quest’opera, inoltre, è fatta anche del virtuosismo a tratti trascendentale che caratterizza le due parti principali, quelle del tenore e del soprano, e che impegna gli artisti al massimo delle loro capacità; perché è loro richiesta non solo la padronanza tecnica per snocciolare in suoni nitidi e rotondi tutte le agilità e gli estremi acuti previsti, ma pure la sensibilità – imposta anche dalla temperie romantica che nel 1840 era al culmine – affinché il virtuosismo non rimanga fine a se stesso e sia invece concepito come veicolo di emozioni e sentimenti particolarmente forti.
Ancora: un’altra peculiarità de “La Fille du régiment” è la sua robusta coralità, dovuta al ruolo di personaggio a tutti gli effetti, di terzo protagonista accanto a Marie e a Tonio, attribuito al famoso 21°, cioè al reggimento che ha adottato la ragazza. Così il coro partecipa direttamente ed intensamente alla vicenda, ora con toni accesi da un buffo entusiasmo marziale, ora con i toni mesti richiesti dall’alternarsi degli eventi.
Lo spettacolo proposto alla Fenice in chiusura della stagione 2021-2022 è in coproduzione con il Teatro Regio di Torino e si avvale del duo Barbe & Doucet (André Barbe scenografo e costumista, Renaud Doucet regista e coreografo), con la collaborazione di Guy Simard per il disegno luci. L’allestimento ha la semplicità incantata del sogno roseo di un bambino, un sogno nel quale anche i pochi momenti inquietanti si sciolgono in una rassicurante atmosfera festosa ed amichevole. Ma, a dire il vero, in questo caso non del sogno di un bimbo in senso anagrafico si tratta, ma del sogno, o del ricordo, di una persona anziana, che conserva ancora lo sguardo pulito dell’infanzia e che rivive, con lo stupore tipico di quell’età beata oltre che con la nostalgia che segna gli ultimi anni della vita, le vicende fondamentali del proprio passato.
Gli spettatori che entrano in teatro, infatti, sono accolti dalla proiezione di un filmato che mostra, in primo piano, il bel volto, dolce, mesto ed espressivo, di una signora in là con gli anni, che sospira in solitudine pensando al passato. Ma, all’attacco della ouverture, la scena si anima per l’arrivo dei piccoli pronipoti, che trasmettono la loro gioia e la loro vitalità alla bisnonna, il cui volto si illumina sempre di più nel sorriso aperto e negli occhi brillanti. Alla signora, che è la vecchia Marie ridotta su una sedia a rotelle in una casa di riposo ma ancora allietata dalla presenza dei frutti del suo amore con Tonio, non resta che rivivere con i bambini quell’incredibile vicenda, che poi non è altro che l’opera nel suo svolgimento.
E infatti, durante la rappresentazione vera e propria, i due piani della narrazione si sovrappongono nella scenografia, pur rimanendo distinti. Quello della memoria è rappresentato, oltre che dall’azione di solisti e coro in palcoscenico, da una scena graziosamente naif di ispirazione tirolese, con la sua brava gasthof sulla destra e, in fondo, un paesaggio incantato da vecchia cartolina illustrata, con il profilo di un castello e, dietro, le montagne innevate. E a coronare l’atmosfera dolcemente infantile, ecco che su questo paesaggio scende anche una lenta, amichevole nevicata, mentre le luci assecondano con efficacia il succedersi delle ore.
Nel secondo atto, poi, al fondale con le montagne innevate e il castello si aggiungono pochi ma azzeccati arredi scenici sul rosa, a creare l’atmosfera leziosamente elegante e pretenziosa del salotto della Marquise.
Il piano della realtà presente, invece, quella che vede Marie in casa di riposo, è rievocato dalla presenza in scena, in formato gigante, di alcuni oggetti che nel filmato introduttivo si erano già visti nella camera dell’anziana signora, che vive circondata dai ricordi del suo fantastico passato: una croce al valor militare, per esempio, una statua della Madonna col bambino ecc.
All’interno di questa cornice così poetica nel suo realismo naïf si snoda uno spettacolo agile e ben congegnato, nel quale gli abitanti si presentano in buffi costumi tirolesi richiamanti la tradizione, mentre i soldati francesi, pur in divisa da seconda guerra mondiale, non fanno paura a nessuno e le loro armi da fuoco, anche se spianate con una frequenza che potrebbe essere inquietante, sembrano sempre pronte a sparare turaccioli anziché proiettili. Tutti i solisti, a loro volta, si muovono con ammirevole vivacità e disinvoltura, senza fare confusione fra loro e con le masse come talvolta accade quando si vuole a tutti i costi movimentare il palcoscenico, ma nel rispetto di un meccanismo ben congegnato che vuole il brio, non il caos.
Se una riflessione critica si può fare su questo riuscitissimo spettacolo, riguarda un’accentuazione, talvolta superflua talatra sopra le righe, dell’elemento farsesco, che diverte il pubblico ma involgarisce il tono soavemente onirico del contesto: troppi ubriachi in scena, per esempio, una trovata strappa risate che appare eccessivamente facile e ingenua anche su palcoscenici di dilettanti; anche Marisa Laurito che insegue qualche malcapitato col siringone per praticargli una dubbia cura ricostituente poteva esserci risparmiata, così come la canzonetta “Arrivano i nostri” intonata dalla peraltro simpatica e disinvolta soubrette, una performance che non ha entusiasmato neppure il rilassato pubblico della matinée di sabato 22 ottobre.
E la musica? La governa sul podio il maestro Stefano Ranzani, che, dopo un’ouverture apparsa alquanto fragorosa, in corso d’opera trova un maggior equilibrio dinamico, accompagna con attenzione i solisti evitando di coprirne le voci, asseconda gioiosamente i momenti marziali e più scatenati ma sa aprire delle evocative atmosfere liriche quando Donizetti dà sfogo alla sua vena intrisa di nostalgica mestizia.
Il cast è dominato dalla superba Marie di Maria Grazia Schiavo, fresca, sbarazzina, partecipe in scena quanto di assoluto splendore sul piano vocale, grazie ad uno strumento corposo, squillante, svettante negli acuti anche alle altezze più siderali, e per giunta perfettamente controllato attraverso un’emissione facile, esatta, ben appoggiata sul fiato, duttile nelle variazioni dinamiche pur senza eccessi virtuosistici che potrebbero togliere spontaneità al canto. Anche nei momenti più lirici il soprano è assolutamente all’altezza, eseguendo, per esempio, una stupenda “Par le rang et par l’opulence”, intinta in quel colore mestamente spento che piaceva tanto a Donizetti ma senza che il suono perda nulla in termini di rotondità e consistenza. Insomma, una Marie migliore non si potrebbe immaginarla e per giunta al debutto nel ruolo...
Il suo Tonio ha la classe e lo stile vocali di John Osborne, il che non è poco. Queste doti emergono soprattutto in un “Pour me rapprocher de Marie” di squisita fattura, eseguita tutta sul fiato a mezza voce con un impeccabile legato. In altri momenti, invece, si ha l’impressione che al prestigioso artista difetti almeno in parte quella freschezza ed esuberanza vocali di cui invece Marie dispone in abbondanza e giochi un po’ sulla difensiva. Il suo “Pour mon âme”, molto atteso dal pubblico anche se ad esso è sbagliato legare l’esito di una performance, parte benissimo e i primi “do” schioccano rotondi e sonori come saette, ma succede che un paio di quelli successivi facciano segnare per un istante una leggera ma ben percettibile incrinatura. Né hanno miglior esito altre sporadiche puntature tentate più avanti. Ma lasciamo stare. Teniamoci invece nell’orecchio alcuni momenti preziosi dell’interpretazione di Osborne, l’artista lo merita.
Solo elogi devono essere rivolti al Sulpice del baritono Armando Noguera, argentino di nascita e francese di cittadinanza, anch’egli al debutto nel ruolo. Simpaticissimo sulla scena nel suo essere ora burbero, ora impacciato, ora tenero, ora ingenuo come la parte richiede, è anche più che adeguato sul piano vocale. Del tutto centrata come personaggio la Marquise de Berkenfield del mezzosoprano viennese Natasha Petrinsky, che tiene la scena con assoluta sicurezza e proprietà in virtù anche della bella figura, mentre la sua vocalità risulta come ovattata e non riesce a liberarsi in un canto libero e schietto. Molto bene, divertenti e divertiti, l’Hortensius del baritono Guillaume Andrieux e il Caporale del basso-baritono Matteo Ferrara.
Resta da dire del Coro, che, sotto la direzione del maestro Alfonso Caiani e impegnato di continuo dall’inizio alla fine dell’opera, dà il meglio di sé nella piena disponibilità ad ogni esigenza scenica e in un rendimento vocale di alto livello per qualità sonora, compattezza, duttilità.
Sabato 22 ottobre: teatro gremito ai limiti della capienza e bella atmosfera di festa come si vorrebbe sempre vedere, con applausi, battimani, evviva per tutti.
Adolfo Andrighetti
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