ALLA FENICE “IL MATRIMONIO SEGRETO”, NOSTALGIA DI SERENITÀ
In un contesto così turbolento, la rappresentazione di un’opera come “Il matrimonio segreto”, mirabile per la serena allegria che sprigiona all’interno di una cornice formale di perfetto equilibrio, poteva servire ad illudere che un certo tipo di mondo, fondato sulla stabilità di valori certi e consolidati, rimanesse in piedi nonostante la crisi.
Per ragioni simili a quelle che avevano incantato la corte di Vienna, anche oggi questo lavoro non rappresenta soltanto un gradevole recupero museale, ma possiede qualcosa di significativo da comunicare al nostro presente lacerato, disorientato, sradicato, al quale contrappone, con il garbo ed il sorriso, un equilibrio ordinato ed armonioso, l’eleganza e la purezza della creazione artistica, la codificazione entro precisi limiti formali della serenità e dell’allegria attraverso soprattutto lo sgorgare felicissimo, gioioso, sorgivo della melodia.
La ricerca della bellezza e dell’armonia non è mai banale, in quanto corrisponde ad una strutturale necessità dell’uomo, che aspira, anche nella propria quotidianità, ad una serenità superiore all’interno della quale comporre e risolvere le mille contraddizioni della vita. “Il matrimonio segreto”, con i limiti di una creazione artistica ma anche con chiarezza solare, dà ali e respiro a questo desiderio ineliminabile, curando le umane ferite con il balsamo del suo universo sonoro, all’interno del quale, come scrive Lorenzo Arruga ne “Il teatro d’opera italiano”, si incontra “la freschezza zampillante della felicità”.
Che poi l’incanto si sia riproposto in questa occasione alla Fenice con tutta la sua cristallina evidenza, lasciando lo spettatore in quello stato di appagata beatitudine che richiama le stupefazioni dell’infanzia, sarebbe eccessivo affermarlo. Certo, tutto funziona nel complesso, ma manca quel pizzico di magia indispensabile per far lievitare lo spettacolo oltre il limite della collaudata professionalità e permettergli di approdare all’incantesimo, alla meraviglia. Così, il maestro Alvise Casellati, pur nell’economia di una conduzione apprezzabile e godibile, sembra talvolta spingere l’orchestra verso sonorità che si vorrebbero meno turgide, più leggere e trasparenti, lasciando desiderare in certi passi, a cominciare dalla ouverture, una ricerca più accurata di grazia, finezza e trasparenza.
Così lo spettacolo, firmato per la regia da Luca De Fusco (scene e costumi di Marta Crisolini Malatesta, disegno luci di Gigi Saccomandi), è simpatico e gradevole, perché i protagonisti si muovono bene sul palcoscenico, sono caratterizzati in maniera precisa, sanno dove devono mettersi e cosa fare. E perché la scena – una sorta di quadreria fatta di sole cornici con poche e consuete suppellettili solo nel secondo atto – è vivacizzata dalla trovata di riempire i vuoti lasciati dai quadri assenti con delle immagini che esprimono i desideri, i pensieri e i retropensieri dei protagonisti.
Che poi il regista abbia motivato questa scelta col fatto che una delle caratteristiche principali de “Il matrimonio segreto” sarebbe costituita dallo scarto tra immaginazione e realtà vissuto dai personaggi, sembra un particolare secondario, a fronte dell’oggettiva riuscita della sua intuizione di rappresentare le fantasie di chi sta in scena: in effetti, tutte le trame operistiche senza eccezioni prendono più o meno vita in virtù della distanza che separa, talvolta comicamente, talvolta tragicamente, il mondo che i personaggi immaginano e desiderano da quello reale.
Tutto bene e tutto a posto, dunque, nell’allestimento. Ma anche niente di memorabile. A meno che non si voglia considerare tale – e di questi tempi potrebbe anche essere il caso – l’ambientazione e gli appropriati costumi, che rispettano i tempi originali dell’azione.
Anche sul cast, quasi interamente al debutto nei ruoli rispettivi, si possono fare osservazioni simili.
Si impone su tutti – e non può essere un caso - l’unico non debuttante, cioè il baritono Omar Montanari, che sa mettere a frutto la qualificata esperienza nel repertorio brillante per incarnare un conte Robinson proprio a puntino, per la vocalità corposa e rotonda, la varietà e la proprietà del fraseggio, l’esemplare chiarezza nell’articolazione della parola, la sobrietà e la disinvoltura in scena.
Il tenore Juan Francisco Gatell è un Paolino ben calibrato per l’abilità e la cordialità con cui restituisce, attraverso la brillante vocalità tenorile, l’insicurezza venata di pavidità che contraddistingue il personaggio.
Meno persuasivo il Geronimo di Pietro Di Bianco, la cui interpretazione del personaggio risulta un po’ anonima e il cui rendimento vocale non sembra favorito da una fonazione poco fluida e spontanea.
Sul versante femminile, è applaudita calorosamente dal pubblico la Carolina del soprano Lucrezia Drei, che, con intelligenza ed arguzia, sa mettere bene in evidenza la semplicità, la spontaneità, ma anche la combattività della sposa segreta, che, alle prese con problemi che si ingigantiscono scena dopo scena, non se ne lascia schiacciare ma si fa forza per affrontarli, per sé e per il marito Paolino. Il personaggio emerge in tutta la sua immediata simpatia, anche se, quando la voce sale, si ascoltano suoni metallici, puntuti, che fanno desiderare di essere meglio coperti e ammorbiditi.
Bene in parte anche il soprano Francesca Benitez, un Elisetta che, fra l’altro, viene a capo con sufficiente perizia e disinvoltura delle impegnative colorature disseminate nella sua aria “Se son vendicata”.
Pienamente apprezzabile, infine, la Fidalma del mezzosoprano Martina Belli, che tiene bene la scena con una presenza convinta e convincente, ed esibisce un timbro pieno, rotondo, di bel colore, ed un’emissione omogenea e ben appoggiata.
Alla serale del 14 febbraio il pubblico applaude con calore, felice di essere ritornato per un po’ di tempo in quella sorta di infanzia dello spirito, nella quale esistono solo bellezza e gioioso divertimento.
Adolfo Andrighetti