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Asterisco Informazioni di Fabrizio Stelluto

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ALLA FENICE: UN "ERNANI" OPPRESSO DAI TRAUMI DEL PASSATO

04/04/2023
Sarebbe semplicistico affermare che “Ernani” consiste solo della musica di Verdi: una musica incalzante, trascinante, a tratti travolgente, baciata dalla grazia di una vena melodica sovrabbondante per energia e creatività; perché questa musica è stata pensata e scritta dal suo autore, musicista dall’infallibile intuito teatrale, come un vestito confezionato su misura per il dramma di Victor Hugo adattato da Francesco Maria Piave.
Verdi, si sa, componeva per il teatro ed ogni sua nota era studiata per dare vita al personaggio, alla situazione, alla singola parola. Per questo è essenziale cogliere i nuclei drammatici di questa tragedia, “Ernani”, che può apparire irrimediabilmente estranea alla sensibilità moderna, con quei logori e vieti punti d’onore che l’etichetta della nobiltà spagnolesca anteponeva ad ogni altro valore umano; e che trovano la loro assurda apoteosi nella conclusione dell’opera, quando l’eroe si suicida mentre sta entrando nel talamo nuziale per tenere fede ad un ridicolo giuramento pronunciato in precedenza.
Quindi, dove cercare l’anima drammatica di questo vuoto armamentario fatto di senso dell’onore, rigide gerarchie nobiliari, e il blasone, e l’onta ecc. ecc.? Prima di tutto, in quel connubio fra sentimenti privati e conflitti politici qui solo abbozzato ma che porterà, una volta approfondito, agli esiti nobilissimi del “Simon Boccanegra” e del “Don Carlos”. E poi nell’amore senile, così egoista e insieme così umano, così patetico, di Silva nei confronti di Elvira. Egoista, certo, ma anche meritevole di comprensione, perché un vecchio, come scrive Hugo mirabilmente ripreso nell’aria “Infelice e tu credevi”, può anche trovarsi a vivere la faticosa e inconciliabile contraddizione di un cuore giovane, capace di emozionarsi ed intenerirsi, custodito dentro un corpo in decadimento.

E soprattutto diamo un’occhiata al protagonista, non solo tipico eroe romantico proscritto, perseguitato ed infelice, deciso a combattere fino alla fine contro la sorte avversa in nome della libertà personale e dell’amore; ma anche contraddistinto, meno convenzionalmente, dalla difficoltà a conciliare nel proprio io due personalità distinte, quella del fuorilegge e quella del nobiluomo. Il “bandito Ernani”, infatti, dovrebbe irridere, nel nome della sua scelta di vita romanticamente ribelle, il giuramento che Silva gli impone di osservare richiamandosi all’autorità del codice d’onore spagnolo. Per contro, ritornato don Giovanni d’Aragona in seguito all’indulto generale concesso a tutti i congiurati da re Carlo divenuto imperatore, gli spetterebbe il lieto fine; invece muore alla Ernani, cioè con un suicidio di sapore romantico, pur in osservanza di quel decrepito codice d’onore che solo a don Giovanni poteva importare.
Quasi una doppia identità, insomma, da cui deriva un dramma interiore che rimanda ad un altro, umanamente ed artisticamente ben più intenso: quello vissuto da un altro personaggio di Hugo e Verdi dalla personalità dimidiata: Rigoletto.

E di un tentativo di interpretazione psicologica di “Ernani” e soprattutto del suo protagonista si può parlare a proposito del nuovo allestimento presentato dalla Fenice in coproduzione con Palau de les Arts Reina Sofia di Valencia (regia di Andrea Bernard, scene di Alberto Beltrame, costumi di Elena Beccaro, disegno luci di Marco Alba). Lo dimostra soprattutto il bel filmato iniziale in bianco e nero, che, durante l’ouverture, ci presenta un Ernani ragazzino attonito e rabbioso di fronte alla distruzione del castello di famiglia ed al seppellimento delle spoglie paterne. È chiaro che Ernani vivrà tutte le vicende successive raccontate nel corso dell’opera - a cominciare dall’amore per Elvira e dal desiderio di vendetta nei confronti del re - attraverso la lente deformante di quella terribile esperienza infantile, che tornerà a visitarlo in alcuni momenti topici sotto le apparenze di un guerriero medioevale coperto di ferro e dalle grandi ali bianche: è l’immagine del padre, col quale si ricongiungerà al momento della morte.
Si intona a questa visione dell’opera l’impianto scenico, che presenta delle strutture architettoniche d’epoca in forma fortemente stilizzata secondo un modo che si potrebbe definire futurista oppure propone un palcoscenico nudo e buio.

La pur apprezzabile intuizione registica di partenza non trova, però, uno sviluppo adeguato, dal momento che lo spettacolo tende a svolgersi in palcoscenico secondo modalità prevedibili e tutto sommato convenzionali, per cui, per esempio, questo Ernani si muove come qualunque altro Ernani della tradizione, senza che il suo trauma infantile abbia modo di manifestarsi in maniera visibile. Corrispondono ad una concezione tradizionale anche i funzionali costumi d’epoca: belli in particolare quelli di Silva, francamente brutti quelli vestiti dal coro durante la festa nuziale dell’ultimo atto così come le coreografie, del tutto estranee al contesto.
Ma il problema vero è che lo spettacolo rappresentato alla Fenice, nel suo insieme di scena, musica e canto, sembra accusare un clima generale di scarsa attenzione nei confronti del contesto poetico e culturale rappresentato da “Ernani”, ove gli ideali assoluti e sublimi del romanticismo vengono declinati in chiave araldica, mentre sul palcoscenico sono talvolta proposti con un’ insufficiente sensibilità culturale e stilistica, che porta - non sempre ma più di qualche volta – ad esiti che appaiono fuori gusto.

Così il maestro Riccardo Frizza conduce spesso l’orchestra verso un eccesso di platealità, abbandonandosi a sonorità fin troppo intense ed enfatizzando il versante risorgimentale, barricadiero dell’opera, a discapito di quello blasonato e dei momenti più lirici. Altrettanto si deve dire del coro diretto dal maestro Alfonso Caiani, che esegue bene “Si ridesti il Leon di Castiglia” mostrando compattezza ed un impatto sonoro adeguato, ma in altri momenti dà l’impressione di esprimersi in maniera un po’ brada e vociante.
La regia, poi, spesso spinge i solisti ad atteggiamenti che non si confanno al loro rango: Elvira gesticola troppo e, complici anche la bella chioma nera, l’appariscente abito scarlatto e una spontanea sovrabbondanza di sensualità, fa venire in mente Carmen, senza contare che non appartiene al personaggio sguainare un pugnale in faccia al re; un gesto accettabile come frutto della disperazione solo nel finale nei confronti di Silva. E anche il re talvolta si dimentica di essere tale, mostrando un incedere non sempre elegante e consono al rango, mettendo le mani addosso ad un bandito, cioè Ernani, e sbattendo le sedie per terra.
Anche il canto si dimostra in alcuni casi stilisticamente poco a fuoco. Il Don Carlo del baritono Ernesto Petti ha volume, timbro adeguato, omogeneità di suono, ma se queste doti lo sostengono nella declamazione, non sono sufficienti a rendere con attendibilità l’involo melodico dei pezzi lirici, ove si richiederebbero un’emissione più morbida e carezzevole, una modulazione più sciolta e spontanea. In generale, va tenuto presente che il re è giovanissimo, quindi è bene si presenti impetuoso, irruento, ma rimane sempre il re: la Spagna del XVI secolo non è il luogo adatto per confondere e superare le gerarchie.
L’Elvira del soprano Anastasia Bartoli, poi, possiede uno strumento dovizioso soprattutto nella zona medio-acuta e di bel colore, ma di non facile gestione o almeno di gestione non ancora pienamente risolta. L’emissione sembra alla ricerca di una sua scioltezza e fluidità, con la conseguenza che il canto indugia sempre attorno al forte e le variazioni dinamiche scarseggiano.
Altro ragionamento si deve fare per l’Ernani del tenore Piero Pretti, che porge e fraseggia con un’eleganza che ben si confà al personaggio, ma che talvolta sembra arrampicarsi su una parte troppo onerosa, che spinge a forzare – ed è un peccato - uno strumento prezioso per la fragranza tenorile del timbro e dell’involo.
E un altro ragionamento ancora vale per il superbo Silva del basso Michele Pertusi, dal quale tutti dovrebbero andare a scuola di canto e di portamento per la presenza nobile ed austera e per l’emissione sempre morbida, rotonda, mai forzata, in grado di assecondare senza sforzo apparente le intenzioni dell’interprete. Solo due esempi: Un “Infelice! ...e tu credevi” da manuale non solo per la pienezza pastosa del suono ma anche per il raccolto eppure intenso senso di commozione; i “Morrà” pronunciati nel finale, appena appoggiati, eppure pieni e sonori fino all’ultima fila della platea. Sì, quando il suono è ben impostato, ci si può far sentire senza gridare.

“Ernani” comunque è opera strappa applausi e tale si è confermata alla Fenice la sera di mercoledì 22 marzo, in una sala piacevolmente e festosamente gremita.

Adolfo Andrighetti

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