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“I DUE FOSCARI”: TORNA A VENEZIA L’OPERA PIU’ VENEZIANA

13/10/2023
Venezia: città magica e reale, per secoli potenza economica e militare dominatrice del Mar Mediterraneo e insieme centro di una vita animatissima e non di rado libertina, repubblica oligarchica dalle rigide e severe strutture istituzionali ma anche luogo “altro”, emergente dall’acqua come un miraggio della Fata Morgana, meta di viaggi, desideri, fantasie. Venezia, insomma, irripetibile palcoscenico spalancato sulla laguna, cornice da favola all’interno della quale la realtà si è sempre manifestata anche in tutta la sua crudezza, non poteva non affascinare il teatro in musica: questa straordinaria scatola magica che si apre su ogni possibile meraviglia, ma che, nella sua assoluta eppure simbolica incongruenza, da sempre racconta – o sarebbe più appropriato dire “canta” – chi è l’essere umano, cosa desidera e perché soffre.
Le opere ambientate in tutto o in parte a Venezia, quindi, non sono poche. A parte le commedie goldoniane dei veneziani Francesco Malipiero e Ermanno Wolf Ferrari, sarà il caso di ricordare almeno, citando a memoria, “Marin Faliero” di Donizetti, “Attila” di Verdi, in cui si mette in scena addirittura la fondazione della città, “La Gioconda” di Ponchielli, diverse altre ambientate in parte a Venezia e in parte altrove. All’interno di questa categoria di opere “lagunari”, un posto particolare è occupato da “I due Foscari”.

In effetti l’originalità dell’opera di Verdi – libretto del muranese Francesco Maria Piave dall’omonimo dramma di Lord Byron, prima rappresentazione al Teatro Argentina di Roma il 3 novembre 1844 – risiede nel fatto di trarre ispirazione non dall’atmosfera misteriosa e sospesa che circonda Venezia, ma dal suo sistema politico di impostazione aristocratica, pronto a chiudersi come una tenaglia sia a difesa di sé stesso sia per schiacciare il presunto elemento disgregatore, che può mettere a rischio l’assetto costituito.
La trama, tutt’altro che banale nonostante le apparenze, mette in contrasto un potere collettivo ed anonimo, incarnato dal Consiglio dei Dieci che è espressione dell’aristocrazia dominante, e un potere individuale e personale, quello del Doge Francesco Foscari. Nel sistema politico veneziano, che non è monocratico e nel quale il Doge non può esercitare un’autorità autonoma rispetto a quella della nobiltà da cui proviene, il conflitto non può che risolversi a favore del Consiglio dei Dieci: ne va della sopravvivenza stessa della Serenissima, alla cui gloria secolare può ben esser sacrificato un solo individuo, per quanto figlio di Doge, cioè Jacopo Foscari, e poi il Doge stesso.
L’opera, inoltre, costituisce un fecondo laboratorio in cui Verdi si esercita su due temi particolarmente vicini alla sua sensibilità e che conosceranno memorabili sviluppi futuri: quello della paternità drammaticamente sofferta e provata, e quello del conflitto tra affetti privati e ragion di Stato.
Per riportare “I due Foscari” nella sua cornice naturale, quella di Venezia e quindi della Fenice, dopo un’assenza che durava dal 1977, si è scelta una produzione proveniente dal Maggio Musicale Fiorentino, a firma Grischa Asagaroff (regia), Luigi Perego (scene e costumi), Valerio Tiberi (luci), Cristiano Colangelo (coreografie). Ma non valeva la pena aspettare così a lungo per poi trovarsi di fronte un allestimento così scialbo ed anonimo, privo di appeal sul piano estetico e di contenuti significativi sul piano della proposta culturale. L’idea di collocare al centro del palcoscenico una sorta di torre che si rifà al monumento del doge Francesco Foscari nella basilica dei Frari, una struttura che ruota su sé stessa spinta da dei mimi per accompagnare il variare delle situazioni, non basta a conferire vitalità all’allestimento. Nonostante le rotazioni, infatti, la torre presenta sempre facciate monotone, insignificanti, che nell’ultimo atto la proiezione di prima uno e poi tre leoni di San Marco non riesce a vivificare. I costumi, d’epoca anche se semplificati, sono almeno dignitosi, se si eccettua la trovata, cervellotica e alla fine ridicola, di mascherare nel III atto Loredano, Barbarigo e i notabili veneziani con il tipico ferro da gondola, il dolfin, che viene inalberato sulla sommità del cranio forse come un orgoglioso simbolo di identità. Le coreografie, pulite ma nell’insieme insignificanti, sembrano adeguarsi al generale tono dello spettacolo, al quale ciò che manca, alla fine, è un progetto registico chiaro ed originale. I solisti sembrano abbandonati a sé stessi e alla loro iniziativa personale, mentre il coro brilla per staticità.

Andiamo decisamente meglio sul piano musicale. Sebastiano Rolli si getta a capofitto nella partitura, vivendola e facendocela vivere fino in fondo, anche se talvolta con qualche eccessivo turgore sonoro, ma elettrizzando sempre negli accompagnamenti. Belle anche le variazioni nei “da capo” delle cabalette.

Il doge Francesco Foscari è Luca Salsi, esemplare in primo luogo per la convinzione e l’impegno con cui si cala nel personaggio, di cui fa rivivere tutta l’impotente grandezza. Ma ad un risultato di così intenso spessore drammatico si può arrivare solo grazie ad u dominio totale della parola scenica, della quale viene restituita ogni sfumatura, ogni declinazione emotiva, mentre il suono rimane rotondo, pieno, ben appoggiato. Ne esce un doge imponente e grandioso proprio perché l’artista ne sa restituire, prima di tutto attraverso il canto ma anche la carismatica presenza scenica, la dimensione umana, costituita dalla drammatica consapevolezza di ciò che rappresenta l’autorità dogale nel contrasto fra il suo prestigio e la sua stessa impotenza di fronte alla sofferenza degli affetti più cari.

Il figlio del doge Foscari, l’infelice Jacopo, è impersonato da Francesco Meli, che incontro sempre con gioia alla Fenice. La sua voce, infatti, di squisita fragranza tenorile e di un impasto di rara bellezza timbrica, è manovrata con un’ammirevole perizia tecnica, che trova il suo fondamento nell’ottimale uso dei fiati. Se ne giova l’espressività del canto, che viene smorzato e rinforzato a piacere giungendo addirittura ad una messa di voce nel bellissimo recitativo che introduce l’aria di ingresso: una finezza non riuscita fino in fondo a causa di un impercettibile arrochimento nel diminuendo di ritorno, ma comunque da apprezzare perché dimostra come la preparazione vocale possa essere messa al servizio di una più puntuale definizione drammatica del personaggio, in questo caso un eroe romantico che trova in un’esecuzione vocale variata, dolce e virile insieme come quella di Meli, il suo più fedele biglietto da visita. Grazie all’impostazione ottimale, quindi, il canto dell’artista si espande libero, ampio, bello in maniera struggente come deve esserlo appunto quello di un eroe innocente, infelice e perseguitato. E pazienza se gli acuti, peraltro non frequenti in questa parte, suonano come sempre un po’ tesi, un po’ forzati, anche un po’ aperti nel tentativo di renderli il più possibile risonanti e forse anche come conseguenza dell’ingrossamento dei centri richiesto dalla necessità di reggere l’intensità del fraseggio verdiano: il canto di Francesco Meli, un canto screziato di nostalgia, di sofferenza, di rabbia, è quello di Jacopo Foscari. Si può domandare di più?

La Lucrezia Contarini di Anastasia Bartoli possiede un impeto ed una carica emotiva incontenibili, rafforzati da una presenza scenica da dominatrice e dall’attraente figura. Il materiale vocale è di primordine per robustezza e resistenza e le consente un canto sempre incisivo, imperativo, capace di portarsi via il pubblico trascinandolo all’entusiasmo. Anche le agilità di forza e i passi più esposti, che la parte assai impegnativa richiede, sono risolti con una sicurezza ed uno slancio ammirevoli. Tuttavia l’emissione sembra mantenere qualcosa di poco fluido, di artefatto, che rimane finché la voce non sfoga nell’acuto di forza, sempre risolutivo per la penetrante sonorità. Rimane, insomma, l’impressione di una voce che fatica a riposare su sonorità morbide, liriche, estatiche, che pure sono richieste nel repertorio romantico, mentre viene spinta di preferenza in un canto teso ed aggressivo, quindi alla lunga poco vario.
Eccellente, per il bel colore e la pienezza del timbro ma anche per la padronanza dello strumento, lo Jacopo Loredano di Riccardo Fassi, un artista sempre più apprezzato che farebbe piacere vedere e sentire in ruoli più impegnativi. Da sottolineare anche l’efficacia della sua presenza in palcoscenico: quasi sempre immobile, riesce però a far arrivare agli spettatori l’impressione netta di quella gelida indifferenza, di quella superiorità sprezzante, che contraddistinguono l’atteggiamento del perfido Loredano verso le sofferenze degli odiati Foscari.
Affidabile, efficace, convincente come sempre il tenore Marcello Nardis come Barbarigo. E a posto anche la Pisana del mezzosoprano Carlotta Vichi.
Resta da dire del coro, diretto da Alfonso Caiani, e qui ascoltato in una delle sue prove migliori per compattezza, sonorità ma anche per la capacità di modulare il suono quando necessario.

Al termine della serale di giovedì 12 ottobre, successo entusiastico e meritato per tutti.


Adolfo Andrighetti

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