I RACCONTI D’HOFFMANN: E LA FANTASIA ANDO’ AL POTERE
può essere orgogliosa. Come prima tappa della stagione Lirica e
Balletto 2023-2024, infatti, è stata scelta “Les Contes
d’Hoffmann” di Jacques Offenbach, su libretto che Jules Barbier
trasse da una commedia omonima sua e di Michel Carré, a sua volta
ispirata ai racconti dello scrittore tedesco E.T.A. Hoffmann.
“Les Contes” fu rappresentata postuma nel 1881 all’Opèra-Comique
di Parigi, dopo che il suo autore si era spento l’anno precedente
lasciando una partitura incompiuta, che fu completata da Guiraud
nella strumentazione e quindi sottoposta a complesse integrazioni
e rimaneggiamenti negli anni successivi, al punto che oggi siamo
ancora lontani dal disporre di un‘edizione definibile come
conclusiva. È prudente lasciare in merito ogni valutazione ai
musicologi; qui basti dire, con il maestro Chaslin, che
l’esecuzione della Fenice si basa per la maggior parte sulla
versione Oeser, risalente agli anni sessanta-settanta dello scorso
secolo e ancora oggi la più utilizzata.
Ciò premesso, va detto che la divertentissima e inquietante opera
di Offenbach, percorsa in ugual misura da risate liberatorie e
brividi sulfurei, crogiolo in cui si fondono e decantano stili,
toni, motivi ispiratori i più diversi, ha trovato alla Fenice una
realizzazione compiuta e convincente nel fantasmagorico spettacolo
di Damiano Michieletto, coadiuvato dai suoi collaboratori storici:
Paolo Fantin per le scene, Carla Teti per i costumi, Alessandro
Carletti per le luci, cui si aggiunge Chiara Vecchi per le
coreografie. Si tratta di una coproduzione della Fenice con
istituzione prestigiose quali la Sidney Opera House nel
cinquantesimo anniversario della fondazione, la Royal Opera House
di Londra e l’Opéra National di Lione.
La disinibita esplosione di fantasia, di creatività, di
visionarietà anche, che contraddistingue questa messa in scena,
nel moltiplicarsi delle trovate e degli effetti talvolta proposti
più per il loro potenziale di sorpresa e di divertimento che per
la loro coerenza intrinseca con l’insieme (due esempi fra i tanti:
i fuochi d’artificio che concludono il primo atto e il bravissimo
acrobata sui trampoli), sembra la più efficace chiave di lettura
per un’opera che, da qualunque parte si cerchi di afferrarla,
sfugge sempre alla presa, rifiutando di farsi rinchiudere
all’interno di una concezione interpretativa univoca.
Dal tourbillon che anima il palcoscenico nel via vai continuo di
coristi, ballerini, mimi, emerge comunque la consueta cura con cui
Michieletto costruisce i personaggi sul piano teatrale,
evidenziando di ognuno la fisionomia attribuitagli dal dramma
attraverso lo studio perspicace e meticoloso di gesti ed
atteggiamenti. È un’abilità, ma anche uno scrupolo diligente
figlio di una severa professionalità, che contraddistingue il
regista vero, categoria alla quale Michieletto appartiene a pieno
titolo.
Tutte le altre componenti dello spettacolo collaborano con
coerenza ed efficacia alla realizzazione della concezione
registica: le scene semplici e funzionali, insieme alle luci che,
nette e con poche sfumature, variano sui toni pastello tranne
l’atto di Giulietta, sottolineano la componente giocosa, quasi
infantile, ben presente nella lettura di Michieletto. Questi,
anche nel finale quando chiama tutti i personaggi al proscenio,
sembra invitarci a non prendere troppo sul serio la vena diabolica
che percorre l’opera ma a scherzarci su divertendoci tutti insieme
per la bella rappresentazione. E poi i costumi, anch’essi
simpaticamente e chiassosamente fantasiosi con una sottolineatura
per quello di Nicklausse, trasformato in una sorta di iridescente
e leggiadra fata-farfalla. E le coreografie, infine, sempre vivaci
e divertenti.
Va anche detto che la sovrabbondante fantasia di Michieletto, per
quanto sbrigliata e disinibita come si è detto, si esprime secondo
una logica coerente. Il viaggio realistico-onirico-simbolico di
Hoffmann, infatti, è restituito come un percorso esistenziale e
sentimentale attraverso le varie età del protagonista, ognuna
delle quali è segnata da una presenza femminile diversa ma
ugualmente evocativa ed affascinante. Che poi le tre figure
femminili, come canta lo stesso Hoffmann all’inizio dell’opera e
come ribadisce Nicklausse nel finale, non siano altro che tre
donne nella stessa donna, tre anime nella stessa anima, e
finiscano poi per identificarsi con la figura fantomatica ed
essenzialmente immaginaria della cantante-diva Stella, è pur vero.
Ma è altrettanto vero che Stella, l’eterno femminino, è immaginata
e vagheggiata da Hoffmann in maniera diversa nei tre atti e
Michieletto opportunamente declina questa diversità in base alle
diverse età del protagonista.
Ecco allora Hoffmann, visto nel Prologo come un clochard disperato
e beone ma ancora ravvivato da qualche scintilla dell’antico genio
poetico, che si vede (Primo Atto) ragazzino in un’aula scolastica
con tanto di banchi e lavagna e bidello neghittoso, mentre dà
corpo e anima, col suo innamoramento tutto cuore ed immaginazione
come capita agli adolescenti, ad una ragazza, Olympia, che esiste
solo nel suo desiderio.
Lo ritroviamo poi uomo giovane nell’atto di Antonia, capace di un
sentimento forte, concreto, passionale verso una donna provata, di
cui è capace di condividere la sofferenza: non una cantante alla
quale è proibito cantare perché esiziale per la sua salute, ma una
ballerina ammalata che non può più esibirsi. Ma il canto resta,
ovviamente, perché previsto da libretto e partitura, fattore di
un’esaltazione sublime, talmente rapinosa ed ineffabile da condure
alla morte; per cui si crea uno scollamento sgradevole e
disorientante tra ciò che si vede e ciò che si sente.
Tuttavia la scelta, in sé assai discutibile, permette a
Michieletto di dare vita ad un momento di teatro intensamente
poetico, grazie alla riuscita ambientazione all’interno di una
sala da ballo e ad alcune invenzioni di alto livello registico.
Non ci si riferisce al patetico barcollare di Antonia quando vuole
abbandonarsi all’abbraccio del suo innamorato, un effetto in sé
fin troppo facile, ma piuttosto alla intuizione di dare corpo alla
nostalgia della donna per il suo passato di ballerina portando in
scena lei stessa bambina che volteggia in tutù, piena di sogni che
sono stati frustrati dalla malattia. A quella piccola Antonia, la
giovane donna provata dalla sorte si rivolge con tenerezza e
struggimento nell’aria della Tortorella, che è fuggita e
rappresenta un “ricordo troppo dolce”, un’”immagine troppo
crudele”; così come lo è la memoria di sé stessa bambina felice,
che si abbandona liberamente alla danza e dalla quale vorrebbe
farsi aiutare per rialzarsi, quasi a cercare nel suo felice
passato un sostegno per sopportare un presente troppo duro.
L’amore adulto può essere solo quello consumato in un night con
una cortigiana? Certo che no, ma così lo rivive o lo immagina
Hoffmann nel Terzo Atto, quello di Giulietta, forse il meno
risolto anche per la difficoltà di cogliere il senso di una
drammaturgia involuta e poco chiara.
Nell’Epilogo, poi, si ritorna là dove tutto era cominciato, cioè
nella taverna, ove, come si è detto, si propone una soluzione
disimpegnata e rasserenante dell’intricata vicenda. Il momento
centrale è rappresentato dalla comparsa di Stella che si rivela
essere il diavolo travestito: a confermare che il lungo sogno
sentimentale ed erotico di Hoffmann non aveva nulla di buono e di
reale, ma era solo lo sberleffo crudele di un diavolo malignamente
dispettoso.
La piena riuscita dello spettacolo, salutato con entusiasmo alla
serale di giovedì 30 novembre, è stata garantita anche dalla
presenza di un cast di alto livello e di qualità assoluta in
alcuni ruoli.
Ivan Ayon Rivas, tenore peruviano di soli trent’anni, è un
Hoffmann pressoché ideale per la presenza fisica disinvolta e
insieme dimessa, talvolta quasi impacciata, da antieroe che fa
della sua stessa fragilità una personale cifra identitaria oltre
che uno stile di approccio all’universo femminile. Lo strumento,
poi, è sano, risonante, assolutamente resistente al ruolo
impervio, dal timbro squillante e smaltato. Attenzione però alla
zona acuta, ove, forse per un’eccessiva facilità di esecuzione e
per l’esuberanza del giovane artista, l’emissione potrebbe essere
più controllata e raccolta.
Alex Esposito si fa carico dei quattro personaggi diabolici
donando al pubblico una interpretazione di altissimo livello,
forse la sua migliore fra quelle presentate sul palcoscenico della
Fenice. Il suo proverbiale estro di attore consumato ha qui modo
di esprimersi in pienezza e la voce, timbrata, robusta, bene
emessa e controllata con ammirevole bravura nonostante l’impegno
attoriale richiesto, lo sostiene dall’inizio alla fine. Una
convinta ammirazione deve essere rivolta a questo artista che non
usa le doti sceniche per farsi perdonare un canto discutibile, ma
le accompagna ad un patrimonio vocale di tutto rispetto, gestito
con grande padronanza e professionalità.
Il soprano spagnolo Rocìo Pérez è un’Olympia caratterizzata con
efficacia ma anche con misura sul piano scenico, attraverso una
garbata e divertita ironia che sostituisce felicemente certi
eccessivi scivolamenti caricaturali che possono risultare
stucchevoli. La voce, poi, suona più rotonda e pastosa di quelle
che si è soliti ascoltare in questo ruolo, anche se gli
appuntamenti virtuosistici sono tutti onorati con sicurezza.
Carmela Remigio ha modo di usare al meglio le proprie consumate
doti di cantante-attrice nel ruolo di Antonia, cui dona
un’intensità drammatica ed una partecipazione emotiva veramente
toccanti. E pazienza se qualche suono in acuto risulta un po’
duro, perché un’artista di questa classe, capace sempre di una
profonda immedesimazione teatrale e musicale nelle parti che
affronta, non può essere valutata con il metro pedante ed ottuso
di un Beckmesser.
Meno riuscita, sebbene del tutto adeguata, è sembrata la Giulietta
del soprano Véronique Gens, forse per una forma vocale non
ottimale che non le ha permesso di rendere al meglio la componente
sensuale e seduttiva, essenziale in questo ruolo.
Le parti di fianco, come si sa numerose ed impegnative, svariano
nella valutazione dal bravissimo al bravo: dal Nicklausse
simpatico e sbarazzino, sostenuto da una voce di buona qualità,
ben emessa e bene impostata, del mezzosoprano Giuseppina Bridelli,
alla impagabile Muse, immaginata come una signora borghese molto
per bene e un po’ affettata, dell’altro mezzosoprano Paola
Gardina, al Frantz irresistibile, centratissimo e vocalmente
all’altezza del tenore Didier Peri (ma è anche Andrès, Cochenille
e Pitichinaccio), al Nathanaёl del tenore Christian Collia, allo
Spalanzani del collega di registro Franҫois Piolino, agli Hermann
e Schlémil del baritono Yoann Dubruque e, ultimo ma tutt’altro che
ultimo, ai Luther e Crespel del basso Francesco Milanese. L’elenco
è lungo ma tutti meritano di essere almeno menzionati. Meno
convincente è sembrato soltanto l’intervento, poco intenso
emotivamente e poco trascinante forse per l’accompagnamento un po’
slentato dal podio, del mezzosoprano Federica Giansanti come Voix
de la mère nell’atto di Antonia.
E a proposito di podio, questo era occupato dal maestro parigino
Frédéric Chaslin, che, prima dello spettacolo inaugurale della
Fenice, aveva già diretto ben settecentotrentadue recite di
quest’opera dopo il debutto assoluto avvenuto ancora nel nostro
teatro nel 1994. Uno specialista, dunque, la cui competenza ed
esperienza non può essere messa in discussione e si evidenzia
nella sensibilità con cui dà il giusto risalto ad alcuni raffinati
accompagnamenti. Peccato, invece, che altri momenti siano
caratterizzati da sonorità eccessive e da un’impostazione un po’
greve, a discapito della leggerezza e della brillantezza,
caratteristiche identitarie di quest’opera.
Il coro del Teatro, infine. Diretto da Alfonso Caiani, si è
bravamente disimpegnato sul piano scenico e ha dato il meglio di
sé su quello vocale, anche se un maggiore controllo ed omogeneità
del suono in alcuni passi in fortissimo sarebbe preferibile.
Adolfo Andrighetti