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UN TRANSITO AFFASCINANTE DAL PECCATO ALLA SALVEZZA

19/03/2024
C’è da chiedersi come mai questa breve opera (1h e 10’ di durata), rappresentata per la prima volta in forma di concerto alla Carnegie Hall di New York il 16 marzo 1932, rimanga così ostinatamente lontana dai palcoscenici, al punto che la precedente messa in scena alla Fenice risale al 1956. Certo contribuisce la natura ibrida del lavoro, a metà strada fra opera e oratorio, ma si sa che anche un oratorio spesso presenta spunti che un regista può utilizzare per la realizzazione di una convincente azione scenica. Certo, “Maria Egiziaca” è definita ‘Mistero in tre episodi’, a sottolinearne la natura anomala e sfuggente rispetto agli ordinari criteri di classificazione dei generi riconducibili alla categoria del teatro in musica: ma non rappresenta anche questa una sfida stimolante per dei registi provvisti di fantasia e di coraggio?
A ciò si aggiunga che la drammaturgia è intrigante, imperniata com’è sulla vicenda di una prostituta vissuta nell’Alessandria d’Egitto del IV-V secolo d.C. e poi redenta attraverso un’ascesi più che quarantennale nel deserto; basti pensare a ciò che fu capace di fare, sempre per i palcoscenici veneziani, Pier Luigi Pizzi mettendo in scena “Thaïs” di Massenet, storia che ha molti punti in comune con quella di Maria Egiziaca e della quale il prestigioso regista ci ha offerto un’interpretazione teatrale memorabile.
Né può bastare ad indebolirne la struttura drammaturgica la sua stessa brevità, che forse ne impedisce un adeguato sviluppo, oppure il libretto arzigogolato e compiaciuto di Claudio Guastalla, messo insieme con i cascami di un dannunzianesimo riproposto a forza senza il genio del pescarese.
Ma la tenace trascuratezza dei nostri teatri verso il lavoro di Ottorino Respighi meraviglia soprattutto perché si tratta di una partitura mirabile, densa di una musica raffinata e affascinante, suggestiva ed evocativa, capace di raccontare con intensità ed eloquenza lo svolgersi della vicenda adattandosi alle sue diverse situazioni.
Il sofisticato eclettismo, che mette insieme, in un ammirevole equilibrio, suggerimenti della musica contemporanea al compositore con echi del recitar cantando monteverdiano e del canto gregoriano (si vedano gli splendidi interventi fuori scena del coro diretto da Alfonso Caiani), così come il magistero tecnico che le scelte di strumentazione sottendono, sono solo dei mezzi per la realizzazione di un universo sonoro tanto armonioso ed equilibrato quanto emotivamente comunicativo.
Il culmine di questa affascinante narrazione sinfonica è forse raggiunto, come sottolinea il maestro Manlio Benzi, nei due interludi sinfonici, che separano, ma senza alcuna soluzione di continuità, i tre episodi in cui è suddivisa la vicenda: funzionalmente, per preparare il passaggio dall’uno all’altro, in realtà saldandoli in un’unità coerente e compatta, nonostante la diversità di situazioni, tinte ed atmosfere che li caratterizzano.
E proprio a Manlio Benzi si deve una prima ragione del successo completo e convinto che ha accompagnato questa riproposta di “Maria Egiziaca” al Teatro Malibran. Il maestro, infatti, che dichiara di non aver mai diretto prima la partitura e, anzi, di averla studiata solo in vista di questa rappresentazione veneziana, dichiara di esserne rimasto “profondamente affascinato” e la definisce “estremamente succulenta” sul piano musicale.
Questa empatia fra l’esecutore e le note che è chiamato a dirigere e concertare rappresenta la condizione indispensabile per la riuscita dell’interpretazione musicale, che infatti è risultata assolutamente convincente. Da sottolineare la duttilità con cui Benzi ha saputo evidenziare la bellezza e la raffinatezza delle soluzioni respighiane senza per questo sacrificare l’intensità emotiva che la musica sprigiona e che viene tradotta in sonorità spesso intense ma mai tali da coprire le voci degli ottimi interpreti.
Fra questi si è distinta, per la disinvoltura dell’accattivante presenza scenica e per l’adeguatezza vocale, la protagonista Francesca Dotto. Il soprano di Treviso è una Maria assolutamente credibile per l’efficace e intensa immedesimazione nel personaggio, che propone con la stessa autorevolezza nella sfacciata sensualità della prima parte come nella crisi di pentimento della seconda e nell’ascensione mistica della terza; e insieme per la sicurezza con cui lo strumento sano, sonoro e duttile affronta una tessitura assai impegnativa per le frequenti e brusche escursioni verso l’acuto e mantiene compattezza e rotondità anche nei momenti più aspri, nei quali la tensione emotiva sale e le ondate sonore provenienti dall’orchestra si intensificano.
Gli altri accompagnano e assecondano Francesca Dotto con bravura e professionalità. Simone Alberghini è adeguato come pellegrino e abate Zosimo. Il pellegrino, nel primo atto, si scandalizza di fronte alla proposta che Maria fa ai marinai di pagare la traversata fino a Gerusalemme con il proprio corpo e, nel secondo atto, la rampogna duramente per i suoi peccati. L’abate Zosimo, nel terzo atto, è protagonista del commovente e grandioso duetto finale con Maria, che, nell’abbraccio del sant’uomo, incontra finalmente la pace e la misericordia divina. In entrambi i ruoli, caratterizzati da una ieratica ma anche commossa solennità sacerdotale, Alberghini trova gli accenti e le inflessioni più adatte, confermando quella dignità artistica e quella affidabilità che gli sono riconosciute.
Il tenore Vincenzo Costanzo è un marinaio dal canto corposo, esuberante e fin troppo sfogato, ostentatamente ‘macho’ si potrebbe dire. Ma è una scelta stilistica in linea con il personaggio, che si prepara ad accogliere con entusiasmo la proposta di Maria di pagarsi il viaggio ‘in natura’. Nel secondo atto, infatti, l’artista sa trovare sonorità più rattenute e tinte più sfumate per rappresentare l’atteggiamento umile e penitente del lebbroso.
Ottimo l’apporto degli altri: i giovani tenori Michele Galbiati e Luigi Morassi (un compagno; un altro compagno e il povero), il soprano Ilaria Vanacore (la cieca a la voce dell’Angelo), il baritono veneziano William Corrò (una voce dal mare), di affidabilità e di rendimento sempre inappuntabili.
Infine, lo spettacolo, dovuto nella sua interezza alla firma prestigiosa e ormai storica di Pier Luigi Pizzi, con la sempre apprezzabile collaborazione di Fabio Barettin per il disegno luci. Pizzi sceglie la strada di una semplicità atemporale, stilizzata ed evocativa, curando in modo particolare – strano a dirsi per un regista talvolta accusato di essere fin troppo legato ad uno stile prettamente scenografico – la recitazione dei personaggi, accuratamente delineata con riferimento particolare a quella della protagonista.
L’allestimento è affidato a scene di un’essenzialità in sintonia con l’atmosfera generale della vicenda, ravvivate da proiezioni non sempre ispirate ed intonate al resto dello spettacolo. Il quale, comunque, ha il grande merito di cercare e spesso trovare una piena sintonia con la componente musicale, restituendo quel senso di armonia e di compiutezza complessive che si incontra sempre più di rado nei teatri d’opera. Pizzi, insomma, offre allo spettatore la possibilità di fare un’esperienza spirituale e culturale unitaria, nella quale le varie componenti della rappresentazione si richiamano e si sostengono le une con le altre in una proposta dalla chiara e precisa cifra intellettuale, oltre che rispettosa del compositore e degli spettatori.
Nella concezione di questa “Maria Egiziaca” svolge un ruolo importante, non solo dal punto di vista spettacolare ma anche da quello concettuale, la bravissima danzatrice Maria Novella Della Martira, che interpreta la protagonista durante gli interludi orchestrali, completando, con l’eloquente linguaggio del corpo, ciò che il canto ha già detto, in una riuscita sinergia tra arti e mezzi espressivi diversi.
Sul piano concettuale, cui si accennava, riveste un significato particolare il momento in cui la danzatrice, al termine del secondo atto e quindi del percorso penitenziale che lo contraddistingue, si denuda completamente. Un gesto che ne richiama analoghi già visti nell’indimenticabile “Thaïs” di Massenet con regista Pizzi, e che, nel nuovo contesto, può essere letto come il segno di una sensualità radicata così profondamente nella personalità di Maria da non poter essere rimossa neppure nel momento del pentimento ma, piuttosto, purificata e ricondotta alla sua vera origine; come se la protagonista ci dicesse: tutto è buono in quanto viene da Dio, anche il corpo e la sessualità, purché siano riportati alla logica per la quale entrambi sono stati voluti.
Ma, assecondando questa impostazione fino alle ultime conseguenze, alla nudità di Maria si può attribuire anche un significato ulteriore, complementare al precedente: il momento del pentimento, quando si riconoscono i limiti e la povertà della nostra umanità greve e bisognosa di redenzione, è forse l’unico in cui si è veramente nudi, cioè privi di difese inutili ed artificiali, e quindi sinceri davanti alla nostra coscienza e al Mistero della vita. Infatti Maria canta nel terzo atto: “Come trema la nuda anima mia”: una nudità e quindi un’essenzialità spirituali che possono trovare una rappresentazione adeguata nella nudità del corpo.
Adolfo Andrighetti


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