MEFISTOFELE INGANNA E ILLUDE, ANCHE OGGI
Può essere questa, considerate anche le dichiarazioni dei due artefici principali, la chiave di lettura della variopinta, fantasmagorica, spettacolare messinscena del “Mefistofele” di Arrigo Boito che la Fenice offre in questi giorni per la regia di Moshe Leiser e Pautrice Caurier, le scene di Moshe Leiser, i costumi di Agostino Cavalca, il disegno luci di Christophe Forey, i video di Etienne Guiol, la coreografia di Beate Vollack.
In questo spettacolo, il mondo di oggi, con le sue attrattive allettanti in apparenza ma in realtà vacue fino all’inconsistenza, è incarnato da Mefistofele, volgare ed arrogante piazzista di un ingannevole paese dei balocchi. Faust, invece, composto e borghesemente vestito, quasi un sosia del Thomas Mann austero e dedito al lavoro come ce lo restituisce l’iconografia ufficiale, rimane ciò che è sempre stato e sempre sarà: l’uomo alla perenne ricerca del significato di sé e della vita.
Non per niente la scena iniziale dell’opera, il prologo in Cielo, rinuncia alle atmosfere metafisiche per essere collocata al centro di un palcoscenico completamente vuoto, in cui siede solitario il diabolico protagonista: metafora patente di ciò che egli rappresenta, cioè la solitudine ed il nulla, qui intese non tanto come espressione di un male assoluto, ontologico, ma piuttosto come emblema del vuoto – grottesco, divertente anche, come la regia evidenzia, ma alla fine disperante – che il mondo di oggi offre in risposta al “perché?” esistenziale dell’uomo.
E non per niente Mefistofele avvia Faust al suo viaggio incantato ed illusorio non attraverso il mantello che fa volare nell’aria, come da libretto, ma iniettandogli una sostanza che è ovvio supporre allucinogena. Insomma, alla domanda di significato che Faust, a nome di ogni essere umano, avanza, il mondo di oggi risponde offrendogli droga, cioè ciò che distrugge la natura umana da cui quella domanda proviene.
Dal momento dell’iniezione, tutto ciò che capita a Faust è quindi illusorio, una fantasia malata ed eccitata. Un’anticipazione di questo trip si ha nello stadio gremito di tifosi ipercinetici che sostituisce la festa della domenica di Pasqua a Francoforte: una ricostruzione fantasiosa e coloratissima di quel rito collettivo che evidentemente non ha bisogno della forza artificiale dello stupefacente per far perdere la testa, bastando il suo influsso stordente e massificante.
Da qui in poi, quindi, è tutto falso, tutto prodotto della fantasia di Faust alterata da Mefistofele: il boschetto illuminato e apparecchiato come per una festa paesana in cui avviene l’incontro con Margherita, quest’ultima vestita alla foggia islamica probabilmente per sottolineare la distanza che separa il mondo della ragazza, segnato dalla fede religiosa, da quello, scettico e indifferente, di Faust; e ancora l’impressionante, riuscitissima scena del sabba romantico, ove le tenebre popolate da una folla disordinata e sfrenata sono rotte di colpo dai bagliori di un incendio, le cui immagini proiettate, prima ripropongono con una certa angoscia per chi guarda la scena del teatro avvolto dalle fiamme e poi si stendono anche ai palchi, con un potente effetto da tragedia cosmica. Qui Mefistofele scende allo scoperto e alla domanda esistenziale di Faust risponde con la rappresentazione non più edulcorata ma autentica del nulla di cui è portatore con tutta la sua energia cieca e distruttrice, espressa dal fuoco che divora il mondo ma anche da una sessualità ridotta ad un esercizio ginnico meccanico e violento.
Secondo questa impostazione, appartiene al regno delle allucinazioni anche la scena della morte di Margherita, con la sua ambientazione spoglia che contrasta con gli universi carichi di colori e di effetti speciali evocati in precedenza da Mefistofele; e rimane allucinazione nonostante la verità del contatto con la sofferenza della persona amata, l’unico momento in cui Faust sembra poter uscire dall’egocentrismo malato in cui lo ha rinchiuso Mefistofele per aprirsi all’altro, che è poi l’unico modo per ritrovare veramente se stessi.
Anche il sabba classico, ambientato in una riuscita ricostruzione della sala della Fenice con l’idilliaca e rasserenante presenza di un balletto, è una soluzione apparentemente possibile ma in realtà illusoria al problema esistenziale di Faust: la bellezza ordinata e rassicurante custodita dalla sala del teatro, infatti, è creata da Mefistofele, per cui è destinata a sgretolarsi di colpo, perché, se il mondo di oggi è in grado di proporre all’uomo qualcosa di rispondente alle sue esigenze, sarà comunque fragile e transeunte, privo di radici e di un solido perché.
Si torna infine allo studio di Faust: ordinato, bianco, immerso in un chiarore che sembra riflettere la luce della ragione con cui lo studioso si è impegnato, seppure senza risultato, nelle sue ricerche. E qui avviene la palingenesi: mentre Mefistofele si contorce e si dispera perché le sue arti da diabolico imbonitore si rivelano inutili, Faust ascende al cielo aggrappato al suo violoncello: come a dire che è nella musica che l’uomo può trovare salvezza. Ma dietro e dentro la musica cosa c’è? La domanda dell’uomo è quindi destinata a riproporsi ancora e ancora inesausta, alla ricerca di una risposta definitiva che non può non esserci da qualche parte, visto che la domanda c’è ed è ineludibile.
In conclusione, al di là delle interpretazioni che se ne possono dare, lo spettacolo alla fine funziona e si impone con la sua efficacia. I registi ci mettono non solo le idee, che vanno sempre verificate in base al riscontro del palcoscenico, ma anche una professionalità di alto livello, al servizio di una creatività sbrigliata ma quasi sempre evocativa, quindi non fine a sé stessa. Il lavoro sui personaggi si concentra soprattutto su Mefistofele, che, grazie anche alla proverbiale capacità di immedesimazione di Alex Esposito, è un demonio mercuriale, che in ogni momento ha un gesto, un atteggiamento, una mimica dedicati alla costruzione di un personaggio che sarà comunque difficile da dimenticare. Fondamentali alla riuscita dello spettacolo, inoltre, anche lo splendido disegno luci e i fantasiosi video, di pertinenza variabile rispetto alla vicenda ma nel complesso molto efficaci. Di minor rilievo, invece, e tutto sommato abbastanza convenzionali, i costumi.
E la musica? Assolutamente varia e composita, a tratti poderosamente sinfonica e a tratti seducente sul piano melodico secondo la migliore tradizione italiana, talvolta ironica e talvolta profondamente drammatica, capace di alternare autentica genialità a momenti kitsch, rappresenta comunque un magma sonoro di non facile gestione, nella ricerca dell’equilibrio fra le masse orchestrali, quelle corali ed i solisti. L’impresa riesce bene a Nicola Luisotti, che tiene saldamente in pugno le redini della complessa macchina a lui affidata concertandola con padronanza e professionalità. Qualche volta sembra insistere troppo sulle dinamiche forti e non là dove la partitura lo richiede, ma in alcuni momenti ove ci si aspetterebbe una mano più lieve, più sensibile.
Il palcoscenico è ovviamente dominato dal Mefistofele di Alex Esposito, che realizza ancora una volta il miracolo di intonare correttamente le note pur curando contemporaneamente nel dettaglio un’interpretazione scenica che non conosce un attimo di stasi ma si rigenera continuamente in una serie inesauribile di movimenti ed atteggiamenti. Il fraseggio del cantante, variato fin nella minima gradazione dinamica e coloristica, accompagna la mobilità dell’attore, per cui il personaggio ne esce con una prepotenza teatrale che non ha riscontri almeno oggi. Che poi, in certi momenti, si senta la necessità di una cavata più ampia e risonante, da basso autentico, è certamente vero. E si deve anche dare credito a quello che diceva un giornalista argentino seduto accanto a me e cioè che la voce di Esposito funziona alla grande in un ambiente piccolo e raccolto come quello della Fenice, ma non rende in sale vaste come quella del Colon di Buenos Aires. Tuttavia, considerato che è della performance veneziana e non di quelle straniere che devo riferire e considerato che l’opera è teatro in musica, per cui entrambi gli elementi concorrono in sinergia e in reciproco sostegno per giungere al risultato finale, si deve affermare che Alex Esposito è un protagonista assoluto, che sa coniugare le esigenze del canto, sempre musicalmente corretto, di volume adeguato e magistralmente espressivo, con quelle di una teatralità di eccezionale rilievo, per donare al pubblico un Mefistofele nell’insieme memorabile.
Il Faust di Piero Pretti è signorile, composto, ma a tratti monocorde in un canto corretto ma un po’ rigido, che avrebbe bisogno di più morbidezza, sensualità e anche varietà di colori soprattutto nei momenti in cui dovrebbe accendersi di passione amorosa, come nel duetto con Margherita nel secondo atto, oppure nella visione, erotica e funebre insieme, della fanciulla durante il sabba romantico. Ma è molto ben eseguito, da lui come dalla sua partner Maria Agresta, lo splendido duetto del carcere “Lontano, lontano, lontano”, con un canto a fior di labbro omogeneo e delicato che ne restituisce tutta la struggente nostalgia per un amore puro e sincero che non è realizzabile sulla terra e viene quindi proiettato in una dimensione di sogno. Meno bene invece il finale, in cui Pretti risulta stentoreo forse per la sopravvenuta stanchezza di un ruolo vocalmente molto impegnativo; ma almeno il si bemolle di “Baluardo m’è il Vangelo” esce limpido e sicuro.
Note meno liete – e spiace doverlo riconoscere per un’artista di questo livello – si registrano per la Margherita di Maria Agresta, che, nella scena del carcere, pigia sul pedale dell’intensità drammatica probabilmente per compensare una condizione vocale non ottimale e fatica a mantenere la linea di canto, andando almeno una volta in grave difficoltà.
Fa bene ciò che deve fare Maria Teresa Leva come Elena, nel pezzo cupo e impegnativo in cui rievoca la distruzione di Troia. Sicuri nei rispettivi ruoli Enrico Casari come Wagner e Nereo e Kamelia Kader come Marta e Pantalis.
Le parti corali, di assoluto rilievo in quest’opera, hanno trovato adeguata ed efficace risoluzione nei complessi della Fenice, diretti da Alfonso Caiani, e nel coro Piccoli Cantori Veneziani diretto da Dina D’Alessio, quest’ultimo dalla significativa pienezza e limpidezza di suono, non frequente in un ensemble di voci bianche.
Alla fine della serata, quella di mercoledì 18 aprile, un bel successo pieno, caloroso, convinto per tutti, a premiare un lavoro nel suo inseime di alto livello professionale ed artistico.
Adolfo Andrighetti