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ALLA FENICE UN RIGOLETTO ALIENATO E MEMORABILE

13/02/2025
Forse il merito principale di questa sorprendente produzione di “Rigoletto”, già vista alla Fenice nel 2021 in pieno Covid dopo il debutto all’Opera Nazionale di Amsterdam nel 2017, è rappresentato dalla completa e singolare sintonia fra la concezione registica, dovuta a Damiano Michieletto, e quella musicale, espressa sul podio da Daniele Callegari.
La lettura di Michieletto, infatti, imperniata su di un protagonista rinchiuso in un ospedale psichiatrico ove rivive l’intera vicenda in una lunga e angosciosa allucinazione, una lettura così dura, scabra, asciugata da ogni sentimentalismo ma offerta in tutta la sua nuda e spietata disperazione, trova piena rispondenza nella impostazione musicale di Callegari. Questi sembra mortificare ogni parentesi lirica della partitura, per scandirne lo sviluppo secondo un ritmo serrato, implacabile, trascinando il dramma in una corsa sfrenata verso il nulla.
L’incubo perenne di Rigoletto, schiacciato dalla tragedia della morte della figlia di cui si sente ed è anche responsabile, quella sua allucinazione incessante popolata dal ricordo di Gilda bambina, dalla presenza sfrontata e invasiva del Duca e dall’agitarsi attorno a lui della massa senza volto e senza anima dei cortigiani, tutto questo universo cui torna a dare vita una mente malata si completa e si compie attraverso una esecuzione musicale a tratti quasi meccanica nella sua implacabile scansione, prosciugata di quegli indugi e di quegli squarci lirici che possano far supporre che, oltre la sofferenza delle vite schiacciate, si apra un altrove armonioso e pacificato. Insomma, il “Rigoletto” messo in scena da Michieletto non dà spazio alla speranza e la direzione di Callegari, sottraendo alla partitura quell’orizzonte lirico in cui la speranza trova una dimensione sonora, compie sul piano musicale ciò che la regia propone.
Alla fine si assiste ad una serata memorabile, nella quale nulla è scontato, nulla sa di routine, ma tutto fa riflettere lo spettatore e, prima ancora, lo prende alla gola, lo scuote e lo conturba. Si esce dalla sala emozionati, sconcertati, magari ripassando mentalmente i limiti dello spettacolo come quelli della lettura musicale, ma con lo spirito del reduce che ha appena vissuto un’esperienza forte, artisticamente traumatizzante, di quelle che non si dimenticano. Come sarà difficile dimenticare tutti i momenti solo orchestrali, a cominciare dalle poche battute del preludio, spinti verso una tensione quasi insostenibile e mai udita prima almeno da chi scrive, così non può non restare nel ricordo l’immagine straziante di quell’uomo distrutto, annichilito, vagante per il palcoscenico nell’espressione di una sofferenza che non conosce requie.
Su questi presupposti, di fronte ad un così elevato livello culturale ed artistico, non è il caso di indicare i limiti dello spettacolo e dell’esecuzione musicale, già sottolineati su “Asterisco” da chi scrive in occasione della premiere italiana del 2021. Michieletto, coadiuvato da Paolo Fantin (scene), Agostino Cavalca (costumi), Alessandro Carletti (luci) e Roland Horvath (video), sconta la propria creatività sbrigliata e a tratti geniale con una sovrabbondanza di immagini e simboli come Gilda bambina onnipresente sia in scena sia nei video; una sovrabbondanza che è incongrua in una visione così severamente e spietatamente essenziale della vicenda; ed è ovvio che la lettura di Callegari, stringente e quasi asfissiante nella sua assenza di oasi liriche in cui riposare e respirare, non giova al canto, che non si espande libero nei momenti in cui lo potrebbe ma resta sempre un po’ sacrificato, come ingabbiato. Così “Veglia o donna” suona meccanico, carente di sentimento ed umanità, e altrettanto può dirsi di uno spoetizzato “Caro nome”. Ma ‘tout se tient’ in questo indimenticabile “Rigoletto”, perché tutto è coerente con una concezione che dimostra come, partendo dal dramma e non stravolgendolo, si possano proporre spettacoli innovativi, anche trasgressivi, ma non fuorvianti, non ultronei rispetto a quanto suggerito dal libretto e dalla partitura. Certo, le forzature non mancano, sia nella regia come nella lettura musicale; eppure non fanno che riproporre al giorno d’oggi quella carica destabilizzante che gli spettatori dell’epoca percepirono in “Rigoletto” al suo primo apparire.
Luca Salsi letteralmente si offre alla regia di Michieletto con totale disponibilità, accogliendone fino in fondo ogni stimolo, ogni suggerimento. Il risultato è un’interpretazione memorabile per la verità della presenza scenica angosciata, straziata, alienata nella gestualità ossessiva e irrequieta. Lo strumento, sontuoso come sempre per rotondità, omogeneità, pienezza di suono, sa piegarsi ad ogni esigenza della partitura con una varietà di colori, accenti e sfumature che non sorprende più chi segue questo eccellente artista, così felicemente e frequentemente presente alla Fenice. A un “Cortigiani” di una violenza inaudita, per esempio, corrispondono innumerevoli frasi sussurrate con straordinaria leggerezza. Da sottolineare, rispetto alla performance del 2021, l’apprezzabile rinuncia, soprattutto nel finale, ad effetti quasi di parlato allora apparsi forse troppo esteriori e plateali, a vantaggio di un canto spianato altrettanto emozionante ma più conforme allo stile verdiano.
Anche il Duca di Mantova del tenore peruviano Ivan Ayon Rivas, già presente nel 2021 come il maestro Callegari, Salsi e alcuni comprimari, è perfettamente intonato all’impostazione dello spettacolo. Sicuro di sé sino alla sfrontatezza e oltre, si muove sul palcoscenico come a casa e incarna alla perfezione il ruolo del macho che, come recitava una pubblicità d’antan, ‘non deve chiedere mai’. Anche sul piano vocale la resa è coerente con la sottolineatura della componente arrogante ed egocentrica del personaggio, attraverso un canto che sfoga facilmente verso l’acuto e suona sempre insolente, quasi aggressivo. Quindi il tenore dà il meglio di sé dove può liberare la voce in un canto spiegato e squillante, come nella cabaletta “Possente amor mi chiama” e anche ne “La donna è mobile”, mentre altrove si vorrebbe un suono più morbido e rotondo, ottenibile con un’emissione più controllata ed omogenea. Così i momenti in cui l’artista cerca un canto più modulato sul piano, sembrano quasi giustapposti a quelli in cui il suono viene scagliato verso l’alto con squillo aggressivo, mentre le due fasi dovrebbero apparire l’una il completamento dell’altra senza soluzione di continuità.
Maria Grazia Schiavo, apprezzatissima alla Fenice ne “La Fille du régiment” del 2022, è la Gilda, indifesa di fronte all’irrompere dell’amore, che ci si aspetta e che deve essere. La voce, forse in qualche momento in difetto di volume e di rotondità, dà il meglio nei passi più virtuosistici, come “Caro nome”, dove si impongono la tecnica impeccabile del soprano, il suo timbro squillante e adamantino e la sua facilità nel dominio del registro acuto.
Lo Sparafucile di Mattia Denti è adeguato nella presenza scenica da bravaccio delle nostre tristi periferie urbane, mentre il canto, nonostante la buona padronanza del grave e l’indiscutibile professionalità, sembra quasi faticare a liberarsi e ad espandersi, e lascia un po’ a desiderare in quella connotazione minacciosa e lugubre pure indispensabile nella resa del personaggio.
Misurata nel canto e nella presenza scenica la Maddalena del mezzosoprano Marina Comparato. Adeguati il Monterone di Gianfranco Montresor, anche se la parte richiederebbe un basso piuttosto che un baritono, e il Marullo di Armando Gabba. Apprezzabile, senza scendere in pedanti distinguo, il contributo degli altri: Carlotta Vichi (Giovanna), Roberto Covatta (Borsa), Matteo Ferrara (conte di Ceprano), Rosanna Lo Greco (contessa di Ceprano), Nicola Nalesso (Un usciere di corte), Sabrina Mazzamuto (Un paggio della duchessa).
Impeccabile il Coro della Fenice istruito da Alfonso Caiani.
Alla serale di martedì 11 febbraio il pubblico si scalda e si sgola per applaudire con entusiasmo tutti gli interpreti, a cominciare dal monumentale Luca Salsi, meritatamente oggetto di ovazioni interminabili. Ma sarebbe stato interessante cogliere qualche reazione di fronte alla spiazzante proposta teatrale e musicale, proprio per capire cosa...è stato effettivamente capito.
Adolfo Andrighetti

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