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Asterisco Informazioni di Fabrizio Stelluto

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RITORNO STORICO ALLA FENICE DELL’ANNA BOLENA DI DONIZETTI

09/04/2025
Risale al 1857 la precedente rappresentazione a Venezia di “Anna Bolena” di Gaetano Donizetti, primo dei suoi capolavori ‘seri’, che debuttò, su libretto di Felice Romani, al teatro Carcano di Milano il 26 dicembre 1830, accolto da un successo clamoroso.
Questa nuova proposta, presentata alla Fenice in concomitanza con l’ingresso del nuovo sovrintendente e direttore artistico Nicola Colabianchi, ha quindi il sapore di un evento nella storia del teatro lagunare, da onorare con un allestimento ed una esecuzione musicale del più alto livello possibile. Di qui la domanda: abbiamo assistito ad uno spettacolo tale da rendere giustizia ad una delle opere più significative del romanticismo italiano e da accogliere con quel ‘finalmente’ festoso e liberatorio che si riserva alle attese protratte molto, troppo a lungo, ma poi appagate in modo pienamente soddisfacente?
Di sicuro rende giustizia all’occasione la partitura in versione integrale, compresi gli ‘a capo’ con variazioni delle cabalette: circa tre ore e venti di sola musica che, se possono mettere a dura prova la pazienza dello spettatore medio, rappresentano però la conditio sine qua non per ripresentare dopo così tanti anni un’opera nel pieno rispetto delle ragioni del compositore e dell’arte in generale.
Adeguato all’evento si può considerare anche l’allestimento pensato e realizzato per regia, scene e costumi da Pier Luigi Pizzi, debuttante nel titolo, con l’ausilio di Oscar Frosio per il funzionale disegno luci. La scenografia si presenta lineare ed essenziale, secondo la dichiarata ultima tendenza di Pizzi volta a sottrarre anziché ad aggiungere, e consiste in una struttura stilizzata di ispirazione tardo-gotica (copyright dello stesso regista), che rimane identica per tutto lo spettacolo e potrebbe rappresentare una sorta di gabbia all’interno della quale i protagonisti restano imprigionati, senza poter dare sfogo ai propri desideri.
Le variazioni all’interno di questa struttura base sono pochissime: una camera da letto con un talamo circondato da ampie e sinuose cortine blu, poi una sorta di inferriata che divide il palcoscenico orizzontalmente a figurare un carcere. Si crea, così, un ambiente spoglio, atto ad esaltare, con la sua stessa nudità, la tragedia che ospita. I colori dominanti sono anch’essi austeri e variano dal nero al grigio ferro, mentre sono più ricchi e fantasiosi i costumi, richiamanti fogge e mode dell’epoca Tudor.
In questo modo, come osserva lo stesso Pizzi, viene trovato “il giusto clima drammatico”, all’interno del quale gli interpreti vengono lasciati liberi di agire, per poter esprimere, muovendosi prevalentemente al proscenio, la bellezza e l’espressività di un canto nel quale si sostanzia, secondo lo stesso regista, la ragion d’essere di quest’opera.
Ed ecco il punto: non saprei dire se, come afferma Pizzi, in “Anna Bolena” “tutto quello che succede è pretestuoso ed è principalmente un’occasione per far esplodere il belcanto”. In proposito mi permetterei di essere più cauto, perché, se è vero che Enrico VIII e Percy corrispondono in fondo a due stereotipi, altrettanto non si può dire di Anna, che vive con grande intensità il dramma di chi, dopo aver perso l’amore, viene privata anche del proprio rango, e di Giovanna Seymour, combattuta fra il rimorso del male che arreca ad Anna accettando le profferte del re, l’amore sincero che la lega a quest’ultimo, il desiderio umano di gloria che manifesta allo stesso Enrico. Figure non banali, insomma, umanamente vive, attorno alle quali la tragedia si compie in maniera forte e compatta.
Ma il punto è un altro. Che si tratti di un’opera in cui il canto è fondamentale non vi è dubbio, secondo la logica e l’ispirazione del melodramma italiano del primo ottocento; a confermarlo, basti nominare i primi interpreti: Giuditta Pasta, Giovanni Battista Rubini, Filippo Galli. Qui non si tratta – e Dio ce ne guardi – di evocare un passato immerso nelle nebbie della leggenda per confrontarlo con un presente inevitabilmente inadeguato; ma di provare a vedere se, anche dal punto di vista del canto, che in questo repertorio è determinante, la ripresa alla Fenice, dopo più di 150 anni di assenza, di un titolo storicamente ed artisticamente così rilevante, sia stata all’altezza dell’occasione.
La protagonista, la russa Lidia Fridman, merita di essere sostenuta per la giovane età (è nata nel 1996) e per una dotazione vocale di assoluto rispetto. La sua Anna Bolena, che debuttava, sorprende per la colonna sonora compatta, imponente, omogenea, senza una smagliatura, senza una debolezza, prodotta da uno strumento certamente fuori dall’ordinario anche per l’estensione, grazie al quale l’artista affronta il ruolo senza problemi di sorta sul piano vocale. Ne vengono esaltati i momenti di maggiore intensità drammatica, che sono risolti con una compattezza sonora a tratti impressionante; ma anche le oasi liriche sono affrontate con la corretta impostazione e le giuste intenzioni.
Purtroppo tutto questo non basta per restituire con piena credibilità un personaggio così complesso e sfaccettato quale Anna Bolena, al quale, nella interpretazione del soprano russo, manca ancora, ma potrà arrivare col tempo, quella sensibilità di donna, quelle trepidazioni, quelle sottolineature espressive, che uno strumento di tale portata, paradossalmente ma non troppo, forse non aiuta a trovare. Ecco, forse manca, in questa Anna Bolena, quel profumo di femminilità che potrebbe impreziosire il personaggio e che viene sacrificato anche a causa del timbro androgino, soprattutto nella prima ottava, del soprano. Quindi, per portare un esempio, se “Al dolce guidami” è carente di abbandono estatico, di quell’incanto sognante che è l’anima del pezzo, “Coppia iniqua”, invece, è trascinante e pieno d’impeto.
Chi, invece, non ha problemi nel fraseggiare con espressività, sensibilità e varietà di accenti è la Giovanna Seymour del soprano Carmela Remigio, che, in un ruolo di solito affidato ad un mezzo, continua a dare prova di una versatilità artistica ammirevole, grazie ad una solida impostazione tecnica e ad una preparazione di tutto rispetto. Nonostante lo strumento, infatti, manifesti qua e là qualche durezza e in certi casi richiederebbe un suono più pieno e rigoglioso, il personaggio viene restituito a tutto tondo nel profilo drammatico ed onorato anche sul piano vocale e stilistico.
Altrettanto può dirsi dello Smeton di Manuela Custer, al quale, in certi momenti, si adatterebbe un timbro più fresco, più adolescenziale, ma che è proposto con piena credibilità nella sua patetica natura di ragazzo innamorato, smarrito, vittima di eventi più grandi di lui.
Per quanto riguarda il settore maschile, non passa inosservato – e sarebbe da meravigliarsi del contrario – l’Enrico VIII di Alex Esposito, colmo di protervia, di aggressività, di malvagità, al punto da sembrare più un vilain da tradizione che un sovrano, seppure altero, superbo e abituato a imporre a tutti il proprio capriccio. L’approccio vocale privilegia l’accentazione violenta e, appunto, aggressiva, sulla levigatezza e l’omogeneità dell’emissione, il che è discutibile in questo repertorio, anche perché l’artista non ama le mezze misure ma spinge le proprie interpretazioni sempre fino al limite e anche oltre, con esiti di assoluta efficacia sul piano drammatico ma talvolta rischiando, almeno in questo caso, di alterare la linea di canto in nome dell’espressività. La presenza teatrale è del tutto coerente con quella vocale: è un Enrico VIII che tradisce la meschinità delle emozioni che lo agitano muovendosi sul palco con un atteggiamento bieco ben poco regale e non disdegnando di alzare le mani su chi capita.
Il Percy di Enea Scala sarebbe molto appropriato se la parte prevedesse solo la zona centrale del pentagramma, dove l’artista sfoggia un fraseggio di bella grana tenorile, nel quale sono presenti abbandono, languore, slancio romantico, quell’afflato lirico, insomma, in cui consiste il fascino di questi ruoli. Purtroppo la zona acuta, affrontata sempre di forza e a voce piena, viene guadagnata con una fatica che compromette la linea e non giova alla resa complessiva. La presenza in scena, però, è viva e spigliata, per cui agli occhi dello spettatore si presenta un Percy come lo si potrebbe immaginare. Anche questo conta.
Ottimo, per la vocalità rotonda, nobile e di bel timbro, il Rochefort di William Corrò, mentre ha convinto meno l’Hervey di Luigi Morassi, dall’emissione spesso spinta in un canto che suona stentoreo e forzato.
Il ruolo del coro, collocato da Pizzi sul fondo della scena a commentare la vicenda in decorativi tableaux vivant, è fondamentale in quest’opera e viene risolto al meglio, con un suono sempre pieno e compatto a tutti i livelli dinamici, dalla compagine del Teatro istruita da Alfonso Caiani, alla quale vengono giustamente riservati applausi scoscianti al termine dello spettacolo.
Ma va detto che un successo pieno ha accolto alla fine della serale di venerdì 4 aprile tutti gli interpreti. Un vero e proprio trionfo, con l’omaggio tradizionale e gentile del mazzo di fiori, è toccato a Lidia Fridman, ma piena soddisfazione è stata riconosciuta a tutti gli altri, a cominciare dal maestro Renato Balsadonna, direttore e concertatore. Questi privilegia i momenti a maggiore intensità drammatica e quindi le sonorità forti e i colori scuri a scapito delle oasi liriche e sentimentali, con un approccio che risulta a tratti un po’ pesante o solo troppo spiccatamente verdiano, specie in alcuni accompagnamenti; una scelta che forse ha influito sullo stile dei cantanti e sul loro modo di affrontare i rispettivi ruoli, ma che va accettata nell’insieme come una delle tante, attendibili letture che si possono dare del capolavoro donizettiano.
Adolfo Andrighetti

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