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MOZART INSEGNA AI GRANDI LA CLEMENZA

27/11/2025
Questa nuova produzione de “La clemenza di Tito” di Mozart, con la quale si inaugura la stagione lirica e balletto 2025-2026 del Teatro La Fenice per la regia di Paul Curran, le scene e i costumi di Gary McCann, il disegno luci di Fabio Barettin, suggerisce una domanda: qual è il punto di passaggio tra un’impostazione visiva essenziale, sobria, di gusto neoclassico, quindi di per sé adatta a restituire l’atmosfera dell’opera, ed un minimalismo scialbo, poco evocativo, che fatica ad emozionare e alla fine lascia freddi? È un punto di passaggio labile, quasi invisibile, che si può valicare senza accorgersene e con le migliori intenzioni. Dove si collochi l’allestimento visto alla Fenice è questione da lasciare aperta; forse la sua caratteristica è proprio quella di rimanere sul periglioso crinale fra stilizzata eleganza e povertà programmatica, magari sul presupposto che le due visioni possano incontrarsi e coincidere.
La vicenda si svolge all’interno di un salone candido di marmi e dalle linee rigorosamente geometriche, ornato da statue e bassorilievi in stile classico. Quel salone, simbolo, nella sua architettura netta ed armoniosa anche se fredda, dell’ordine illuminato voluto da Tito imperatore, cadrà in rovina quando quell’ordine rischierà di sfasciarsi con il tentativo di ribellione culminato con l’incendio del Campidoglio; e si ripresenterà identico a ciò che era all’inizio, quindi immacolato nella sua armonia di linee e di volumi, nel finale, quando il perdono che Tito concede ai traditori ricreerà il còsmos laddove era subentrato il caos.
Un’intuizione convincente, che trova adeguata realizzazione teatrale in particolare nella scena dell’incendio del Campidoglio, reso in maniera semplice ed efficace non solo attraverso il gioco delle luci rossastre a richiamare il riverbero del fuoco, ma anche col via vai dei corpi umani inanimati trasportati in scena: un forte effetto teatrale che ben si accompagna all’intensità drammatica della musica.
La regia risulta meno convincente, invece, nel dichiarato proposito di coniugare l’antico col contemporaneo per evidenziare il carattere universale delle passioni e dei sentimenti che si agitano in quest’opera. Ecco allora i costumi un po’ pasticciati tra fogge di oggi e altre di epoca non precisata; quelle sciocche e inutili pistole puntate contro Sesto dallo stesso Tito (!) e dai suoi scherani; e Sesto che si presenta in scena alla fine del Primo Atto munito del marchingegno per provocare l’esplosione in Campidoglio, mentre una delle più emozionanti musiche mai composte da Mozart è accompagnata dalla proiezione di numeri giganteschi che scandiscono il conto alla rovescia prima del botto; e soprattutto, a sfiorare il ridicolo, Tito che, all’inizio del Secondo Atto, fa il suo ingresso in scena sdraiato in un letto di ospedale e circondato da macchinari clinici ed infermieri.
Ecco, in questi casi si sente la mancanza di una creatività di miglior conio, in grado di evidenziare, con modalità più convincenti e senza mettersi in contrasto aperto con la musica, quanto “La clemenza di Tito” parli all’uomo di oggi. Al netto delle discutibili trovate ora menzionate, tuttavia, la regia anima il palcoscenico in maniera efficace, in particolare lavorando sui solisti in modo che assumano gli atteggiamenti e i movimenti più adatti alle situazioni emotive vissute dai rispettivi personaggi.
La parte musicale della proposta che inaugura la stagione può considerarsi di ottimo livello e assolutamente di prestigio in alcuni casi, come quello del maestro concertatore e direttore Ivor Bolton. Questi mette in risalto la vitalità narrativa e l’intensità drammatica che la partitura possiede con una lettura alacre ma non ingessata. Quindi non vengono sacrificate le sublimi oasi liriche, accompagnate con l’attenzione necessaria a evidenziarne l’involo melodico. Quella di Bolton è una lettura che, nella serale di martedì 25 novembre, racconta, emoziona e coinvolge, grazie anche alla collaborazione brillante e puntuale dell’Orchestra del Teatro, in gran forma.
Il nucleo drammatico dell’opera, si sa, è costituito dalla coppia Vitellia-Sesto, unita da un rapporto che oggi si definirebbe tossico ma che si presenta di una verità umana sconvolgente, nella quale, una volta depurata dalle esasperazioni melodrammatiche, è difficile non riconoscersi. Sesto, stordito, annichilito dall’amore per Vitellia che lo spinge ad attentare alla vita del suo amico e benefattore Tito e per ciò straziato dal rimorso, è personaggio fra i più complessi ed umani di tutto il melodramma. Ed è risolto in maniera eccellente dal mezzosoprano Cecilia Molinari, che, grazie alla solida impostazione tecnica ed alla preziosa sensibilità di artista, ne coglie tutte le innumerevoli sfumature emotive, per restituirle con una sorprendente varietà e pertinenza di accenti e di dinamiche, attingendo ad una tavolozza di colori pressoché inesauribile.
All’artista è stata giustamente tributata un’autentica ovazione al termine dello spettacolo, accomunata nel successo al maestro Ivor Bolton e all’Orchestra. Molto festeggiato, come ormai di felice consuetudine, anche il Coro del Teatro diretto da Alfonso Caiani, coro che in quest’opera svolge un ruolo determinante soprattutto nel finale dei due atti, a creare un clima di solennità e di devozione attorno a Tito e quindi all’ideale di equilibrio e di mitezza da lui incarnato.
Il soprano Anastasia Bartoli, a sua volta, ha molte frecce al proprio arco per incarnare un personaggio esasperato ed egocentrico come Vitellia, ossessionata dal desiderio di vendetta nei confronti di Tito ma poi talmente innamorata del potere da trasformare di punto in bianco l’odio in amore: il physique du rôle, prima di tutto, con una bellezza imperativa, aggressiva, perché Vitellia non sarebbe tale se non sprigionasse una carica seduttiva tale da annullare la dirittura morale di Sesto; e poi, in scena, il carisma da vera tragedienne; non ultimo, lo strumento poderoso e ben temprato, in grado di incidere l’alternarsi parossistico dei sentimenti con un fraseggio infuocato e tumultuoso, con accenti brucianti, con le ascese all’acuto imperiose, anche se questa volta meno salde che in altre esecuzioni. Eppure, nell’organizzazione vocale di questa ottima artista sembra rimanere un che di irrisolto, da ravvisarsi forse in un’emissione che appare costruita, quasi artefatta, sempre tesa nella nota, non fluida, non sciolta, non decontratta come pretenderebbe l’armonia del canto mozartiano, che conserva un classico nitore ed equilibrio anche nell’espressione delle emozioni estreme.
Alla coppia sopra le righe di Vitellia e Sesto risponde, nel dramma, quella più pacata e composta di Annio e Servilia. Il primo, animato da un nobile sentimento di amicizia verso Sesto, è il giovanissimo controtenore (classe 1999) Nicolò Balducci, che si distingue per il timbro pulito e smaltato, per l’omogeneità di suono nei registri e per una varietà di fraseggio apprezzabile considerata l’ovvia artificiosità dell’emissione.
La sua Servilia, sorella di Sesto, affidata al soprano Francesca Aspromonte, rappresenta una piacevole sicurezza e quindi una conferma di quanto già si conosce di questa ottima artista, per la vocalità rotonda, morbida, espressiva e per una grazia innata nel canto e nella figura che si addice alla semplicità e alla pulizia del personaggio.
Da rivedere, invece, il Publio dell’altro giovanissimo in palcoscenico, il basso Domenico Apollonio, nato nel 2001, che ha quindi tutto il tempo per maturare la propria personalità artistica e vocale.
In mezzo a tutti costoro si muove, con buona padronanza della scena e una studiata disinvoltura, il Tito del tenore Daniel Behle, biancovestito a rappresentare la purezza del suo ideale di vita. L’interpretazione replica un cliché ormai abituale per questo ruolo tanto in teatro quanto in alcune anche prestigiose edizioni discografiche: solida professionalità, preparazione musicale e conseguente corretta esecuzione delle arie, ma strumento fragile e anemico, timbro ingrato, fraseggio monocorde. Di qui la domanda: quando mai si potrà ascoltare nel ruolo di Tito una voce stilisticamente adeguata ed informata, ma anche rotonda, corposa, ricca di armonici, in grado di legare e di variare secondo il miglior stile latino?
Adolfo Andrighetti

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