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“Il crociato in Egitto” di Meyerbeer

22/01/2007
Piace questo sconosciuto “Il crociato in Egitto” del tedesco Giacomo Meyerbeer, rappresentato per la prima volta alla Fenice nel 1824, circolato con grande successo nei teatri europei nella prima metà dell’800, poi uscito dal repertorio e quindi scelto dal massimo teatro veneziano per inaugurare la stagione d’opera e balletto 2007. Piace nonostante si componga di due atti di dimensioni wagneriane, il primo di due ore e il secondo di un’ora e mezza, che mettono a dura prova le terga del pubblico sulle scomode poltroncine della nuova Fenice.

Piace nonostante le incongruenze della vicenda teatrale immaginata dal poeta Gaetano Rossi, ambientata nell’Egitto della sesta crociata intorno al 1250 e imperniata sulle disavventure del crociato Armando d’Orville, un personaggio alquanto originale rispetto ai consueti cliché teatrali dell’epoca, dal momento che non ha nulla dell’eroe senza macchia e senza paura. E’ piuttosto un capo scarico, che semina guai appena si muove. Prima, per salvare la pelle, dimentica gli ideali crociati e si mette al servizio del sultano Aladino. Con lui si trova così bene da diventare il suo condottiero di fiducia e da sposare, all’insaputa dell’ignaro suocero, la figlia di lui Palmide, dalla quale ha un bambino. Poi, scosso dalle reprimende dello zio Adriano di Monfort, severo Gran Maestro dell’Ordine dei cavalieri di Rodi di cui anch’egli fa parte, rinnega Aladino e torna fra i crociati, rischiando più volte, con il suo scriteriato comportamento, di compromettere la pace ben avviata fra cristiani e musulmani. Per giunta Armando aveva lasciato in patria una ragazza, Felicia, alla quale era legato da una promessa matrimoniale e che ora ricompare fra i crociati per far valere il proprio diritto verso il fedifrago. Ma c’è un santo protettore anche per gli irresponsabili – ecco una morale adatta per l’improbabile vicenda – dal momento che, alla fine, è sancita definitivamente la pace fra i due gruppi e tutti perdonano Armando, che può così ritornare serenamente in patria in compagnia della moglie Palmide, convertita al Cristianesimo, e del figlio.

Piace, insomma, questa rarità di Meyerbeer. E non solo per la curiosità colta di assistere alla ripresa in teatro dell’opera sconosciuta di un musicista celebre. Piace prima di tutto per il suo fascino intrinseco, per una qualche alchimia che sprigiona, alla quale l’ascoltatore, per quanto critico e scafato possa essere, alla fine si abbandona, lasciandosi volentieri sedurre. Piace la musica, studiata con grande abilità per soddisfare il gusto degli spettatori, per vellicarlo, per coccolarlo. Ci si rende presto conto della trappola in cui si sta per cadere, ma è piacevole abbandonarsi a questa gradevolezza corriva, a questa ricchezza di contrasti e di effetti dal forte impatto emotivo.

Ma, prima di tutto, ciò che affascina nella musica de “Il crociato in Egitto” è il sentore di contaminazione, di ibrido, che promana, un incrocio in cui i primi elementi di ciò che di lì a poco sarà il grand opera, come la presenza possente e grandiosa dei cori, si fondono, da un lato con il gusto e la cura tipicamente tedeschi per l’armonia e l’orchestrazione, dall’altro con un canto di chiara impostazione rossiniana per la nobile anche se un po’ accademica architettura melodica e per l’abbondante coloratura. E il meticciato, per usare un’espressione cara al patriarca di Venezia Angelo Scola, che si vive nella buca dell’orchestra fra stili e culture musicali diverse, si realizza anche sul palcoscenico, ove si incontrano, si scontrano e alla fine riescono a comprendersi ed in qualche misura anche a fondersi due civiltà profondamente diverse ora come allora, quella cristiana e quella islamica.

Per governare questa partitura forse superficiale ma ricca di inventiva, di colori, di suggestioni, ci sarebbe voluto un direttore d’orchestra che stesse al gioco, che si divertisse lui per primo, che lasciasse sbrigliare l’estro e la fantasia. Il francese Emmanuel Villaume, invece, è sembrato preoccuparsi soprattutto dell’efficienza e compattezza dell’ensemble, per cui la sua interpretazione è risultata gradevole ma monocorde, anche trascinante a tratti, ma standardizzata. Una prova di solido professionismo, insomma, ma poca voglia di inventare e di stupire per una partitura, invece, speziata di tanti profumi e colori.

Sul palcoscenico ha agito una compagnia di canto fortemente impegnata a sostenere ruoli vocali assai ardui, che esigono il canto fiorito ma anche, soprattutto nella corda elegiaca, quello spianato, non disdegnando, quando richiesto dalla situazione drammatica, accenti incisivi se non addirittura roventi. Anche qui, insomma, un bel meticciato di stili e quindi di modalità esecutive.

Il sopranista statunitense Michael Maniaci, chiamato ad essere il protagonista Armando d’Orville, non è sembrato purtroppo all’altezza di un ruolo per il quale Meyerbeer aveva potuto contare sull’ultima star evirata della storia del canto, il mitico Giovanni Battista Velluti. Ad una parte molto complessa sul piano vocale ed interpretativo, che spazia dal virtuosismo all’effusione lirica non escludendo neppure gli accenti fieri e bellicosi, Maniaci si accosta con indubbia preparazione tecnica e musicale, ma con uno strumento che non riesce ad affrancarsi dai limiti tradizionalmente accusati dai falsettisti. La voce, quindi, di per sé non brutta e usata con maestria, è però fioca e spesso viene coperta dalle masse sonore cui Meyerbeer dà vita. Sotto sforzo, poi, suona ora chioccia ora stridula. Non è colpa dell’interprete, che, ripetiamo, si dimostra musicista e vocalista di valore: ma la sua prestazione ripropone il dubbio sulla opportunità di affidare ruoli creati per voci leggendarie e capaci di sfidare i limiti imposti dalla natura, come quelle dei castrati, alle emissioni artificiose, ai suoni fissi e poco risonanti, alla povertà di armonici, della maggior parte degli attuali controtenori.

La protagonista femminile è Palmide, personaggio anch’esso molto oneroso sul piano vocale ed interpretativo. Il soprano toscano Patrizia Ciofi, ormai una gradita habitué delle scene della Fenice, lo ha accostato con le sue doti di artista carismatica, capace di donarsi senza riserve alla parte, che vive e ritrasmette al pubblico con totale adesione artistica ed emotiva. Nello stesso tempo, la cantante è musicale, tecnicamente ferrata, fraseggiatrice varia, intensa ed appassionata, ad onta di una voce di volume, risonanza e polpa limitati. Non tutte le note sono bellissime, quindi, ma avercene di artiste così.

Accanto a lei ha altrettanto ben figurato la coprotagonista femminile, l’infelice e generosa Felicia, costretta a sacrificare il suo sogno d’amore per il bellimbusto Armando. Il mezzosoprano Laura Polverelli, pure lei abituata al palcoscenico veneziano, infatti, ha adoperato con maestria e precisione una voce di buon carattere anche se non straordinaria per qualità naturali. Ne esce un’interpretazione vocalmente inappuntabile, mai superficiale e di routine, cui manca solo, in certi momenti, quel surplus di pienezza sonora, di forza ed incisività di accenti, che madre natura ha pensato bene di non concedere.

Ad un livello professionale più che apprezzabile si è espresso anche il trentenne basso – baritono veronese Marco Vinco, che del famoso zio Ivo non possiede certo la profondità e maestosità vocale del basso autentico, ma ha comunque dato vita ad un sultano Aladino imponente e ieratico sul piano teatrale, dalla voce morbida, omogenea e di bel timbro, dall’emissione ben controllata in tutta l’estensione e sull’intera gamma dinamica.

Meno convincente l’Adriano, gran maestro dell’Ordine di Rodi, del tenore brasiliano Fernando Portari, che si dimostra vocalmente efficiente, esibendo buon timbro e squillo perentorio. Ma l’interprete è generico e l’emissione, soprattutto nella zona media e medio – grave, ove la parte insiste assai, appare poco controllata e curata, non abbastanza omogenea e appoggiata sul fiato, per cui il canto risulta talvolta ruvido e troppo sfogato, le agilità sbocconcellate. Peccato, perché le doti ci sono e cospicue.

Fra le seconde parti si segnala l’ottimo Osmino, il braccio destro di Aladino che alla fine tenta un’improbabile congiura contro di lui, del tenore veneziano Iorio Zennaro, artista ben noto al pubblico della Fenice e di ottime doti professionali, che ci auguriamo di poter applaudire ancora sul palcoscenico veneziano anche in ruoli più impegnativi. Completavano il cast la fin troppo sonora ma comunque efficiente Alma, confidente di Palmide, del mezzosoprano Silvia Pasini e i due crociati schiavi dei sempre bravi artisti del coro Luca Favaron e Emanuele Pedrini.

E a proposito di coro, quello della Fenice istruito da Emanuela Di Pietro ha positivamente impressionato per compattezza, duttilità e vigore in un’opera che lo vede impegnato al massimo, autentico protagonista a fianco dei solisti vocali.

Piace, insomma, “Il crociato in Egitto”. Anche per la messinscena elegante, un po’ calligrafica ma di indubbia raffinatezza, di Pier Luigi Pizzi. Questi, per sua stessa ammissione, ha puntato sull’unico aspetto degno di sottolineatura della vicenda teatrale, cioè lo scontro di civiltà fra cristiani e musulmani. Su di un fondale e su quinte completamente nere, quindi, si sono contrapposti il mondo della croce, identificato anche nei costumi dall’austero monocromatismo bianco – nero e simboleggiato da un grande crocifisso che si erge a prua della suggestiva nave crociata, e il mondo del profeta, caratterizzato da splendidi costumi coloratissimi e rappresentato dalla gigantesca raffigurazione grafica del nome di Allah. In tono anche i movimenti dei personaggi e delle masse, costruiti secondo una composta, severa concezione oratoriale, che non cede a tentazioni naturalistiche neppure nei momenti più drammatici e concitati.



Adolfo Andrighetti

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