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Carnevale alla Fenice con “La Vedova Scaltra”

20/02/2007
Può essere paragonata ad una coppa di champagne questa “Vedova scaltra”, l’opera di Ermanno Wolf Ferrari su libretto di Mario Ghisalberti tratto da Goldoni, scelta dal Teatro La Fenice in occasione del carnevale 2007 per celebrare il trecentesimo anniversario della nascita dell’immortale commediografo veneziano: al primo sorso, cioè, ti sorprende, ti instilla un vago senso di eccitazione, ti inebria, quasi, con la vivacità della sua trama musicale screziata, in perpetuo divenire. Ma presto ti accorgi che, se togli le bollicine, cioè il cangiare continuo di un tessuto orchestrale variopinto come un caleidoscopio, in cui si specchia ogni mutevole aspetto della vicenda, resta ben poco: l’abilità del compositore di lavorare di fino con l’orchestra secondo un garbato gusto retrospettivo di stampo neoclassico, la levità e l’eleganza delle soluzioni armoniche, il gioco più o meno parodistico delle citazioni che non esclude neppure Puccini e Verdi. Ma insieme a ciò rimane un senso di fragilità, di effimero, di inconsistenza, derivante da una partitura che si esercita in ricami su di un tessuto connettivo che appare labile.

Insomma, questo quarto frutto, risalente al 1931, dell’amore di Wolf Ferrari per Goldoni, che già aveva ispirato “Le donne curiose”, “I quatro rusteghi”, “Gli amanti sposi” e produrrà di lì a cinque anni “Il campiello”, non riesce a convincere. L’indiscutibile affinità che lega il mondo artistico del compositore veneziano a quello del commediografo del settecento, il guardare retrospettivo del primo a ricercare nella civiltà del secondo un equilibrio fra razionalità e sentimenti che l’epoca moderna non sembra più conoscere, questa volta non produce i risultati sperati. Rimane la nostalgia per un modo di intendere i rapporti personali profondamente umano, capace di stemperare con un sorriso tra l’ironico ed il malinconico gli inevitabili conflitti della vita quotidiana; rimane l’affettuosità con cui Goldoni guarda ai suoi personaggi, esseri umani pieni di difetti ma capaci di accettazione e di comprensione reciproca; rimane, ovviamente, la maestria del compositore, ma, questa volta, i suoi rapidissimi colpi di pennello danno vita ad un acquerello fin troppo elegante e rarefatto, a sfiorare qua e là l’inconsistenza.

Sulla scena incontriamo Rosaura, una giovane vedova non restia di fronte alla possibilità di accasarsi nuovamente, ma che sa muoversi con molta prudenza fra i suoi quattro pretendenti, ognuno dei quali incarna lo stereotipo delle rispettive caratteristiche nazionali: l’inglese Milord Runebif, concreto, laconico, ma anche amante delle relazioni clandestine; il francese Monsieur Le Bleau, vanesio e raffinato corteggiatore di sottane; lo spagnolo Don Alvaro di Castiglia, inebriato dalla grandezza del proprio blasone; l’italiano conte di Bosco Nero, sincero, appassionato e fedele, ma anche inguaribilmente geloso. Come scegliere fra questi quattro partiti, tutti, per una ragione o per l’altra, da prendere nella dovuta considerazione? L’astuzia femminile suggerisce a Rosaura uno stratagemma per mettere a nudo i veri sentimenti dei cavalieri: ad ognuno, approfittando del carnevale, si presenterà travestita e in incognito, fingendo di essere spagnola con don Alvaro, inglese con Milord, francese con Le Bleau e italiana con il conte. Quando si accorgerà che i primi tre si buttano rapidamente fra le braccia di quella che credono una connazionale mentre l’italiano rimane fermo e fedele nei suoi propositi, la scelta sarà fatta: non che il conte sia senza difetti, canta Rosaura nel finale, ma alla fine è un connazionale e poi...al cuor non si comanda. La vicenda è continuamente vivacizzata da Arlecchino, che la alimenta con le sue gags ed i suoi scherzi, frutto di una vitalità semplice e popolaresca, di una dissacrante spontaneità che evidenzia l’intrinseca ipocrisia delle convenzioni sociali a favore delle ragioni più corpose e immediate della vita.

Il veneziano Massimo Gasparon, l’allievo prediletto di Pier Luigi Pizzi, responsabile, come è uso fare anche il maestro, di regia, scene, costumi, ha realizzato uno spettacolo divertente, arioso, colorato. La sua interpretazione dell’opera è semplice, piana; evita la ricerca di metamessaggi nascosti all’interno della trama e cerca soltanto di conferire vivacità alla messa in scena, contando anche sulla convinta e professionale disponibilità degli interpreti. La sensazione è che ad un’impostazione così appropriata e, soprattutto, in piena sintonia con l’atmosfera evocata dalla musica, manchi il guizzo vincente, il lampo di genio e che tutto vada bene ma sia anche un po’ scontato: ma forse non c’è nulla di particolare da svelare in questa “Vedova scaltra” e chi si limita, come Gasparon, a restituircela con spirito divertito e divertente, può dire di aver fatto quanto doveva. Gasparon sceglie di mescolare le epoche e gli stili, per cui alla prima scena, contemporanea all’epoca della composizione, ne seguono altre coeve alla commedia goldoniana. I personaggi si muovono bene, con spirito e vivacità, anche se, talvolta, con qualche eccesso caricaturale. La scenografia abbonda di elementi decorativi molto adatti ad una commedia che vuole solo divertire, come tendaggi rosa e specchiere, e trova uno dei momenti più riusciti nella grandiosa gondola, che farebbe la sua bella figura nella sfilata della regata storica, con cui don Alvaro si presenta a Rosaura. Azzeccata anche la statua di Goldoni che domina la seconda parte dello spettacolo, del tutto simile a quella del veneziano campo S. Bartolomeo. I costumi, belli ed eleganti, contribuiscono anch’essi all’atmosfera di festa spensierata cui Gasparon ha voluto ispirarsi nelle sue scelte.

Un’atmosfera assecondata pienamente anche dal maestro concertatore e direttore Karl Martin, che restituisce la partitura con il giusto stile e l’appropriata sensibilità, proponendosi di divertirsi e di divertire. Altrettanto può dirsi della bravissima compagnia di canto, all’interno della quale ha modo di mettersi in evidenza con doti da autentico animale da palcoscenico il basso – baritono Alex Esposito, Arlecchino dalla verve sfrontata e incontenibile. La parte gli impone di declamare più che di cantare e Esposito lo fa da par suo, anche se, qualche volta, la necessità di scandire in maniera incisiva e netta lo porta a caricare, a forzare un po’ l’emissione. Accanto a lui, si è messo in risalto l’eccellente Milord Runebif del basso Maurizio Muraro, dalla caratterizzazione misurata – si tratta pur sempre di un lord inglese – eppure efficacissima e dalla voce morbida e rotonda. Di pari livello il vivacissimo, mercuriale Monsieur Le Bleau del tenore Emanuele D’Aguanno, forte anche di una voce limpida e squillante. Imponente sia vocalmente sia scenicamente il don Alvaro del basso Riccardo Zanellato. Appropriato ma scolorito rispetto agli altri pretendenti il conte di Bosco Nero del tenore inglese Mark Milhofer, che porge con garbo ma accusa i limiti di una vocalità un po’ spenta di stile anglosassone, specie per l’inevitabile confronto con la solarità e generosità del timbro esibito dal collega di registro D’Aguanno.

Fra le interpreti femminili, il soprano norvegese Anne-Lise Sollied conferisce i giusti accenti lirici a Rosaura, ma le manca qualcosa in termini di charme e di vivacità. Doti tutte di cui sovrabbonda la sua servetta e confidente Marionette, incarnata dal soprano Elena Rossi con verve scatenata ma anche con un timbro che tende a farsi asprigno in zona acuta.

Molto bravi i tre comprimari, scelti come da apprezzabile prassi del Teatro, fra gli artisti del coro. Per dovere di cronaca va detto che si sono messi in evidenza il servo di don Alvaro del basso Antonio Casagrande per doti vocali e il Folletto del tenore Luca Favaron per la spiritosa caratterizzazione, mentre il baritono Claudio Zancopè, nel ruolo di Birif, servitore di Milord, mi è sembrato forzare un po’ l’emissione per conferire più forza ed incisività alle proprie frasi.

Appropriato, come sempre, l’apporto del coro diretto da Emanuela Di Pietro.

Alla recita domenicale cui ho assistito, i non molti spettatori rimasti dopo un deprimente fuggi fuggi generale al calare del sipario, hanno applaudito cordialmente.



Adolfo Andrighetti

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