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Asterisco Informazioni di Fabrizio Stelluto

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Viva il teatro d’opera (anche con i bis)

26/02/2007
Quanto rumore per un bis concesso alla scala dal tenore Juan Diego Florez nel corso dell’opera “La figlia del reggimento” di Donizetti! Ma meglio così: di melodramma si scrive e si parla troppo poco in Italia e non solo per i miei gusti ma anche per il fascino unico di questa forma d’arte, splendida figlia della cultura italiana. Così critici togati, illustri musicologi, firme prestigiose di prestigiosi quotidiani, hanno storto il naso di fronte alla piccola ma indelicata profanazione del Tempio, assumendo un atteggiamento da “de minimis non curat praetor”, ma facendo comunque capire che una simile volgarità non è accettabile.

Da appassionato che ha pure diritto di dire la sua, mi permetto di dissentire. Mi rendo conto, ovviamente, che la musica va accolta con il rispetto dovuto ad un’opera d’arte; che un teatro d’opera, e non solo la Scala, non è un circo o un’arena ove si esibiscono saltimbanchi e lottatori esibendo i muscoli; che l’interruzione, sia pure per pochi minuti, del regolare svolgimento del melodramma ne può alterare la continuità e la compattezza, rompendo quella magica atmosfera che si crea quando spettatori ed esecutori si uniscono in una simbiosi ideale respirando con la musica e quasi annullandosi in essa. E anch’io desidero silenzio in sala, comportamento irreprensibile e immobilità da parte dei miei vicini di poltrona, raucedine limitata al minimo indispensabile; né ho mai manifestato il mio dissenso verso gli artefici o gli interpreti dello spettacolo con urla, fischi o altre manifestazioni inurbane e irrispettose, limitandomi a dosare gli applausi in base al gradimento.

Eppure...Eppure sono indulgente verso i vezzi ed anche i vizi che sono parte costitutiva del mondo dell’opera, gli conferiscono sapore, vivacità, verità. Il melodramma sarebbe meno affascinante e anche meno divertente senza i suoi rituali, le sue tradizioni, le sue abitudini inveterate. E senza i tic, i capricci anche, che contraddistinguono, sempre meno per la verità, i suoi protagonisti. Il teatro in musica non può consistere nell’asettica contemplazione di un’opera d’arte restituita con filologico rispetto. Non è un museo ove si conservano i simulacri polverosi di una tradizione mummificata. E’ teatro, prima di tutto, quindi vita, spettacolo che si crea momento dopo momento, partecipazione del pubblico, entusiasmo.

Non mi piacciono, certo, le sale distratte, superficiali, rumorose, ma neppure quelle silenziose come un’edicola cimiteriale, ove si ha paura di soffiarsi il naso per non rovinare l’evento e non disturbare gli officianti. Mi piace il pubblico che si appassiona, che si scalda anche, che grida bravo; meglio un applauso fuori tempo oppure qualche fischio che certi silenzi imbarazzati, frutto di scarsa conoscenza e alla fine di indifferenza verso lo spettacolo.

Ciò premesso, ritengo che, se non è concesso con troppa generosità ma viene preservata la sua caratteristica di riconoscimento straordinario attribuito ad un interprete di eccezione (come Juan Diego Florez, diciamolo pure), il bis di un cantante rappresenti uno di quegli eventi che rendono il melodramma godibile, croccante, affascinante; che lo fanno essere quello che è, in una parola. E ciò proprio perché il bis è indicativo non solo di un certo narcisismo del cantante, peraltro fisiologico in chi fa quel mestiere ai massimi livelli, ma anche di un intenso livello di partecipazione del pubblico allo spettacolo, del suo coinvolgimento intellettuale ed emotivo, del suo affetto per gli interpreti.

Certo, il buon senso prima di tutto. E’ ovvio che i bis non potranno essere concessi né tanto meno richiesti nelle opere che fanno della compattezza del discorso musicale e drammatico una caratteristica fondamentale, pena il loro stravolgimento, come, tanto per portare l’esempio più facile, quelle di Wagner. E chi si sognerebbe di chiedere un bis nel corso di una rappresentazione, che so, del Pelleas e Melisande di Debussy o della Carriera di un libertino di Strawinsky o della Lulù di Berg? Ma nei melodrammi ove rimangono i numeri chiusi oppure si può comunque parlare della presenza di pezzi musicali isolabili dal contesto, che male può fare un bis, purché rimanga, va ribadito, un evento eccezionale, riservato a prestazioni artistiche di livello assoluto? E perché privare di questo piacere il pubblico?

Ricordo di avere assistito, nella mia ormai lunga carriera di frequentatore di teatri d’opera, ad un unico bis, a riprova che, anche anni fa, nessun ha mai pensato di farne una prassi diffusa o comunque di abusarne. Alla Fenice si dava l’Attila di Verdi con protagonista il grande basso statunitense Samuel Ramey, prestigiosa presenza scenica e cantante sommo. Ricordo l’esecuzione del racconto del sogno di Attila, emozionante per l’intensità dell’interpretazione e la perfezione della resa vocale. Ricordo la successiva cabaletta, restituita con l’aplomb del vocalista di classe superiore pur senza nulla perdere in irruenza e conclusa con una puntatura che ha riempito il teatro dalla platea alla galleria per la risonanza, la pienezza, la timbratura straordinarie; cabaletta che Ramey fu costretto a bissare a furor di popolo, puntatura compresa ovviamente, ancora più bella della precedente. Chi aveva ragione, quella sera? Il pubblico ad entusiasmarsi, il cantante a concedersi orgoglioso, oppure qualche critico a storcere il naso?



Adolfo Andrighetti

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