Alla Fenice due tragiche storie di donne
Il libretto dell’opera di Rachmaninov, invece, fu ricavato da Modest Ciaikovski, poeta di successo e fratello del musicista omonimo, da un celebre episodio della Divina Commedia. Là, quindi, il dramma velleitario di una letterata dilettante, abile ad orecchiare tutti i motivi culturali allora di moda; qui un classico della cultura universale, da cui viene tratto un episodio che, sebbene avesse infiammato di interesse le cronache dell’epoca, ha assunto grazie a Dante un valore universale, quasi di mito senza confini.
La struttura musicale dei due lavori, poi, è coerente con la profonda diversità drammatica. Erwartung, infatti, è il simbolo di un espressionismo teso alla ricerca di più efficaci e più vere forme artistiche e musicali attraverso la disgregazione di quelle tradizionali; forme capaci di dare voce al dramma esistenziale che artisti e uomini di cultura credevano di cogliere nell’uomo contemporaneo, visto come un individuo isolato all’interno di una realtà sconosciuta ed ostile. Basta, quindi, con la tonalità e le sue regole, espressione di un’armonia interiore che sembra non esistere più; largo, invece, agli stilemi capaci di esprimere disagio, incertezza se non addirittura angoscia, come l’atonalità e le dissonanze. L’obiettivo, come scrive lo stesso Schoenberg, è quello di sostituire il “bello consueto”, il bello in senso estetico diremmo noi, con il “bello interiore”, quello che “viene adottato per imposizione di un’interiore necessità” e quindi, potremmo aggiungere, coincide con la verità emotiva che ciascuno porta con sé, nel cervello e nelle viscere.
Tutt’altro, invece, l’universo sonoro di Francesca da Rimini, saldamente ancorato, secondo la scelta cui Rachmaninov rimase sempre fedele, ad un’impostazione di stampo romantico, arricchita dai riferimenti a Ciaikovski, a Wagner e alla vocalità verista tipica della scuola italiana. Resta, nel prologo, il frequente ricorso alla scala cromatica a denunciare la presenza, anche nel tradizionalista Rachmaninov, di una tensione verso quei mondi sonori che le avanguardie a lui contemporanee stavano già sperimentando e che avrebbero dato vita, solo tre anni dopo, proprio all’Erwartung di Schoenberg.
Un abbinamento per contrapposizione anziché per affinità, allora, quello tentato dalla Fenice riunendo nella stessa serata due opere così diverse? Sembrerebbe di sì, anche se un elemento in comune si può ritrovare: la presenza, al centro di entrambi i lavori, di un rapporto d’amore che si ribalta nel suo contrario, cioè la morte. In Erwartung l’amore è una presenza virtuale più che reale, è immaginato e vagheggiato ma posseduto solo nella memoria. Quando si alza il sipario, l’unica protagonista, la donna, è sola, circondata da una natura ostile e minacciosa. E sola rimarrà fino alla fine. La scoperta del cadavere dell’amato non è che il punto culminante di un crescendo di non senso e di disperazione cui nulla può sfuggire, neppure l’amore, che pure è l’esperienza vitale per definizione. La musica, instabile e priva di requie, riecheggia nella maniera più efficace questa situazione di assoluto straniamento, facendo di Erwartung una delle opere emblematiche del Novecento per la perfetta corrispondenza fra dramma e suono.
Ma amore e morte sono al centro anche di Francesca da Rimini, seppure secondo coordinate completamente diverse. Qui l’amore non è soltanto un’immagine mentale, una proiezione dell’inconscio, ma è vissuto concretamente nell’esperienza assoluta e sublime del bacio tra Paolo e Francesca. E’ un amore illecito, però, e quindi, in quanto violazione di un ordine naturale prima ancora che sociale, non può che essere autodistruttivo e portare alla morte: quella fisica, per mano di Lanciotto, che, dopo aver colto nell’atto del tradimento moglie e fratello, li sopprime entrambi; e quella, ancora più dura per la sua ineluttabilità, dell’anima, dal momento che Dante condanna i due amanti all’inferno.
Si potrebbe dire, insomma, che, in Erwartung, come in Francesca da Rimini, l’amore si decompone fra le braccia di chi ne fa il centro del proprio vissuto, trasformandosi in morte: nel primo caso per una mancanza assoluta di criteri orientativi, che rende l’esistenza un incubo senza risveglio; nel secondo e all’opposto, invece, per la presenza di schemi morali troppo rigidi, in cui si enfatizza un solo aspetto della visione cristiana, quello della individuazione del valore e del conseguente giudizio negativo sul comportamento di chi lo viola, mentre è assente l’altro aspetto, complementare al primo, rappresentato dalla comprensione per la fragilità umana e dal perdono.
Lo spettacolo andato in scena alla Fenice, per la regia di Italo Nunziata,le scene e i costumi di Pasquale Grossi, il progetto luci di Patrick Latronica, riesce a cogliere nel suo complesso l’essenza di una drammaturgia alquanto problematica. In Erwartung l’allucinazione della protagonista è offerta al pubblico senza reticenze, in tutta la sua crudezza, come se si trattasse di un esperimento scientifico i cui particolari devono essere ben evidenziati. La scena, infatti, si presenta completamente bianca come un ambulatorio medico, illuminata da una luce anch’essa bianca, fissa, impietosa, tipica degli ambienti sanitari. Al centro tre porte imbottite, anch’esse bianche, che la donna attraversa prima in un senso e poi nell’altro, a simboleggiare le varie fasi del suo delirio. E bianca è la sua veste, come il lenzuolo che copre il cadavere dell’amato. Questo candore asettico è interrotto, proprio come in un’operazione chirurgica, da alcune macchie rosse: il sangue sulla sottoveste della donna, responsabile secondo il regista dell’uccisione del suo innamorato, e le rose rosse che la protagonista porta con sé al suo ingresso, a simboleggiare un amore che forse un giorno sbocciò ma che ormai si è concluso nel sangue. La parte anteriore della scena, candida e illuminata a giorno, è separata per mezzo di una sorta di cancellata – grata, che richiama una prigione o un ospedale psichiatrico, dal fondo completamente buio, in cui spiccano, sotto forma di proiezioni stilizzate tratte da opere di Hannu Palosuo, i due riferimenti apparentemente realistici che il libretto suggerisce: il bosco e la casa.
In questo contesto ha agito con risultati eccellenti il soprano russo Elena Nebera. Intensa ed eloquente sulla scena come insegna la tradizione dei cantanti dell’Europa dell’Est, ha sfoderato una voce capace di fraseggiare con innumerevoli sfumature espressive, robustissima eppure morbida, omogenea e duttile, capace di possenti e timbratissime espansioni in acuto quanto di cupi affondi nel grave. L’artista è stata assecondata con ottimi risultati dal maestro olandese Hubert Soudant, responsabile di una direzione analitica e precisa, capace di evidenziare ogni vibrazione, ogni particella sonora del mosaico costruito da Schoenberg.
Nella Francesca da Rimini, invece, Soudant ha scelto di non asciugare l’enfasi e le ridondanze tardo romantiche di cui è ricca la partitura. Anzi, è sembrato abbandonarsi alla retorica con compiacimento, appagando l’orecchio (molto bravi orchestra e coro della Fenice, quest’ultimo diretto da Emanuela Di Pietro), meno l’anima.
Sotto la sua direzione ha agito una compagnia di canto di sicura professionalità. E’ emerso il Lanciotto del baritono moscovita Igor Tarasov, dalla voce imponente, piena, di bel timbro, capace, nel suo monologo, di una declamazione trascinante. Attenzione, però, perché la tendenza a far risuonare a pieno volume i centri può rendergli arduo il passaggio al registro acuto. Accanto a lui si è esibito come Paolo un altro artista moscovita, Sergey Kunaev, classico tenore di scuola russa dalla impostazione vocale franca e vigorosa. Il teso ed impervio declamato in stile verista, che deve sostenere durante il duetto d’amore con Francesca, lo impegna, però, al massimo delle sue possibilità. Francesca, infine, è il soprano georgiano Iano Tamar, che conferisce al suo personaggio gli accenti appropriati, ammantandoli di un dolce e rassegnato lirismo. Per la cronaca va detto che Tarasov interpretava anche l’ombra di Virgilio e Kunaev Dante Alighieri.
Per l’allestimento, Italo Nunziata e Pasquale Grossi hanno immaginato uno spazio metafisico o, se si preferisce, onirico, caratterizzato dalla presenza di numerosi specchi ad altezza d’uomo in cui si riflette e si moltiplica all’infinito il dramma dei due amanti infelici e l’eterno vagare delle anime dannate. Queste ultime si muovono per il palcoscenico con passi lenti e ritmati, quasi meccanici, portando sul volto una maschera metallica che, da un lato, toglie loro ogni individualità, dall’altro, secondo la regola del contrappasso, impedisce il contatto fisico con l’amato, il bacio come la carezza. Suggestive anche le proiezioni che arricchiscono lo spettacolo, dovute a Marzia Migliora, Elisa Sighicelli e Jacob Kirkegaard.
In una concezione registica così riuscita ha deluso solo il duetto d’amore fra Paolo e Francesca, ove i due amanti sono incapaci di comunicare l’uno all’altra la passione assoluta ed imperativa che li pervade e sembrano ardere di un fuoco di autocombustione, che non si trasmette al partner. E’ evitato anche il bacio conclusivo, climax di tutta la scena e simbolo eterno della passione amorosa.
Alla recita pomeridiana cui ho assistito, successo pieno per Erwartung, grazie anche alla superba prestazione di Elena Nebera, di stima per Francesca da Rimini.
Adolfo Andrighetti
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