L’Eros commerciale e disperato della Traviata di Carsen
Esaurita questa doverosa promessa, va ricordato che la “Traviata” in scena in questi giorni alla Fenice è la stessa, per quanto riguarda l’allestimento, presentata nel 2004 per l’inaugurazione del teatro ricostruito, con la regia del canadese Robert Carsen, le scene ed i costumi dell’inglese Patrick Kinmonth, suo abituale collaboratore, la coreografia del francese Philippe Giraudeau, il progetto luci dello stesso Robert Carsen e di Peter van Praet. Una ripresa che deve considerarsi opportuna, perché permette di gustare nuovamente uno spettacolo non solo di forte valore storico, in quanto ha segnato l’avvio di una nuova epoca culturale ed artistica nella Fenice restituita al mondo, ma anche di grande energia evocativa, capace di afferrare, pur fra alti e bassi, alcuni aspetti essenziali della Traviata verdiana.
E’ soprattutto il mondo sfatto, artificiale, debosciato, che circonda Violetta a trovare nello spettacolo di Carsen una realizzazione di notevole incisività. Si pensi ad entrambe le feste, quella del primo atto come quella del secondo in casa di Flora, ove Carsen rende palpabile ed evidente, con energia quasi espressionistica, l’atmosfera forzatamente e tristemente gaudente in cui la ragazza si immerge quasi contro voglia. Ma si pensi anche al terzo atto e a quell’appartamento spoglio e desolato, pronto per gli imbianchini, in cui Violetta incontra la morte: il segno visivo, concreto, che la recita è conclusa e si sta terminando nell’indifferenza di tutti coloro che vi partecipavano con cinico entusiasmo. Sono gli stessi che, mentre Violetta è moribonda, fanno irruzione per qualche secondo nella sua casa vuota, si abbandonano a qualche sciocca espressione di giubilo per festeggiare il carnevale e poi se ne vanno senza aver degnato la ragazza di uno sguardo: come se non esistesse. Ed in effetti per loro non esiste più, dal momento che non possono più sfruttarla sessualmente a causa della malattia che l’ha colpita. L’entrata in scena di operai e tappezzieri sulle ultime misure dell’orchestra, quando Violetta è appena spirata, pronti a riattare l’appartamento che si è appena liberato e che altri attendono con ansia di poter occupare, è scelta fedele non solo alle indicazioni del romanzo di Dumas figlio, ma, prima ancora, all’essenza più profonda dell’esistenza di Violetta: una stella cadente che brucia in pochi istanti di splendore la vita concessale e che al suo apparire nel cielo è salutata dall’entusiasmo generale, mentre di lì a poco scomparirà nell’indifferenza di chi è pronto ad ammirarne un’altra.
Però, in questo stesso terzo atto, caratterizzato da una così energica e vivida capacità di comunicazione, l’assenza di un giaciglio su cui possa trovare requie costringe Violetta a delle evidenti forzature nella recitazione. La moribonda ora è in piedi, ora accovacciata, ora sdraiata per terra, ma mai in una posizione naturale; finché la sua agitazione si trasmette anche allo spettatore, che vorrebbe far accomodare la ragazza su una delle poltrone di platea, se fossero un po’ più comode. Inoltre, la presenza ossessiva del denaro sotto forma di bigliettoni fruscianti, motore della vicenda e dio onnipotente cui la stessa Violetta deve inchinarsi quotidianamente nella sua esistenza di prostituta di lusso, è certo pertinente. Ma perché utilizzare quel simbolo anche nel secondo atto e tappezzare il nido d’amore di Violetta ed Alfredo con banconote anziché con foglie? E’ proprio lì, in campagna, durante i mesi trascorsi in una simbiosi idilliaca lontana dagli stordimenti parigini, che l’amore ha modo di imporsi come unica ragione di vita anche agli idoli del sesso e dei soldi. Non si capisce, dunque, perché Violetta ed Alfredo debbano amarsi su di un tappeto di bigliettoni.
Alcune scelte discutibili, tuttavia, non compromettono il valore di un allestimento che afferra con energia ed immediatezza alcuni aspetti cruciali della drammaturgia di “Traviata”, cogliendoli non solo sul piano concettuale (il regista non è un filosofo, non dimentichiamocelo) ma, ciò che più conta, su quello teatrale, trasformando le idee in spettacolo capace di coinvolgere il pubblico.
La messinscena realistica di Carsen (forse non sarebbe dispiaciuta a Verdi, il quale, sempre alla ricerca del “vero” umano ed artistico, voleva una Traviata contemporanea) ha trovato positiva rispondenza nell’interpretazione ricca di passione e di calore del soprano uruguaiano Luz del Alba: una Violetta accattivante e totalmente partecipe sul piano scenico, che pur accusando alcune discontinuità nel primo e nel terzo atto, convince alla fine per la comunicativa e per le possibilità di una voce in apparenza tenue, in realtà in grado di rinforzarsi in pienezza e risonanza appena “spingendo” l’emissione. Il soprano si impone alla grande nel secondo atto, raggiungendo quella omogeneità di emissione e quel controllo delle dinamiche che nel primo non erano stati pienamente ottenuti e sorprendendo per una varietà di fraseggio che non ritroveremo allo stesso livello nel terzo, ad esempio in un “Addio del passato” intonato troppo forte e risultato anonimo. Nel secondo atto, invece, commuove, grazie anche al sensibile accompagnamento del direttore Paolo Arrivabeni, il “Dite alla giovine”, sussurrato con una mestizia ed una rassegnazione da grande interprete. E travolge per intensità emotiva, pur nel rispetto della linea vocale, l’”Amami Alfredo”.
Analoga evoluzione si registra anche nella prestazione del tenore Danilo Formaggia, Alfredo disinvolto, che raggiunge l’apice del rendimento nel secondo atto dimostrando bello stile di canto ed apprezzabili intenzioni interpretative. Un lavoro sull’emissione, forse da portare più in alto o più in maschera, potrebbe migliorare lucentezza e squillo dello strumento del bravo artista.
Damiano Salerno è un Germont che si impone non per la potenza della voce o per il suo colore verdiano, ma per la corretta linea di canto e l’apprezzabile impostazione tecnica, oltre che per un aplomb scenico di tutto riguardo.
Nel ricco comprimariato, molto impegnato e con risultati apprezzabili anche sul piano teatrale, si segnalano l’Annina del soprano Elisabetta Martorana, il Gastone del tenore veneziano Iorio Zennaro, il barone Douphol del baritono Vincenzo Taormina. Ancora una volta ascoltiamo l’imponente voce di basso dell’artista del coro Antonio Casagrande, qui Un commissionario, e ci chiediamo perché non provarlo in qualche ruolo più impegnativo. Completano con onore la locandina la Flora del mezzosoprano Silvia Pasini, il Grenvil del basso Mattia Denti, il marchese del basso- baritono Luca Dall’Amico, il Giuseppe del tenore Luca Favaron, artista del coro della Fenice al pari del basso Salvatore Giacalone, qui un domestico di Flora.
Molto corretta la direzione di Paolo Arrivabeni, che sceglie di eseguire la versione definitiva e tradizionale della Traviata, quella preparata da Verdi per la ripresa dell’opera al teatro San Benedetto di Venezia (1854) dopo l’esito insoddisfacente della prima alla Fenice (1853), mentre per l’inaugurazione del 2004 era stata scelta la partitura originale. Arrivabeni segue con cura i cantanti, capisce e fa capire l’opera; rende con efficacia l’atmosfera febbrile delle due feste ed eccelle anch’egli nel secondo atto, ove accompagna con sicurezza e sensibilità i diversi momenti patetici offerti dalla partitura, staccando, fra l’altro, un “Dite alla giovine” da groppo in gola. Nel terzo atto, invece, “Parigi o cara” è sembrato scandito troppo velocemente e rigidamente, così che si è smarrito l’effetto di straniamento onirico di cui il brano è impregnato. Ottimo, infine, per compattezza sonora e adeguata presenza scenica, l’apporto del coro diretto da Emanuela Di Pietro.
Adolfo Andrighetti
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