Fenice: un Siegfried cupo in scena e limpido in orchestra
Certo, rimangono seri dubbi sulla opportunità culturale di spezzare la compattezza del monumento wagneriano eseguendo ciascuna delle quattro tappe di cui si compone in un anno diverso, per giunta non incominciando dal prologo, “L’oro del Reno”, ma dalla prima giornata, “La Walkiria”, per poi proseguire con la seconda, appunto “Siegfried”. Sarebbe ben più significativo, invece, che l’intera tetralogia fosse rappresentata integralmente nel corso della stessa stagione lirica, così da consentire allo spettatore di contemplare la pagana cattedrale edificata da Wagner in tutta la sua sublime e saldissima unità di concezione e di ispirazione. Così avvenne a Venezia nella stagione 1967/68 e fu un evento.
Ma alla Fenice in questa stagione si è dato solo “Siegfried” e di Sigfrido, quindi, si deve parlare. La seconda giornata de “L’Anello del Nibelungo” (e quindi la sua terza parte, considerando anche il Prologo) rappresenta un’oasi di pace e di serenità in quella tumultuosa corsa verso l’abisso che è la Tetralogia wagneriana. La saga, infatti, nasce sotto il segno della corruzione, con la titanica bestemmia che il nibelungo Alberich scaglia contro l’universo maledicendo l’amore: il prezzo terribile da pagare per strappare l’oro, simbolo della purezza primigenia del creato che non ha ancora conosciuto il male, alle Figlie del Reno. Una viscida scia, una bava velenosa, si sprigiona dalla maledizione di Alberich e si allarga sempre di più a corrompere il creato. Quindi l’amore, rinnegato dal Nibelungo ne “L’oro del Reno”, non potrà più ricostituirsi e, non appena accennerà a prendere forma, verrà rapidamente soffocato. Così avviene ne “La Walkiria”, ove Wotan, in nome delle leggi che egli stesso ha sancito e che tutelano il legittimo rapporto coniugale, è costretto a ritirare la propria protezione alla coppia Siegmund e Sieglinde, mettendo a tacere non solo il loro amore, incestuoso e purissimo nello stesso tempo, ma anche il suo sentimento paterno verso di loro e verso Brunhilde, la figlia prediletta, che ha commesso l’errore di volerli soccorrere. E così è anche nell’ultima giornata della saga, “Il crepuscolo degli dei”. Qui Alberich, simile ormai ad un demone del male, istiga per vendetta il figlio Hagen a spezzare il legame tra Brunhilde e Siegfried e quindi a uccidere l’eroe. Se, quindi, è impossibile l’amore, inteso, nella concezione paganeggiante di Wagner, come irresistibile forza primordiale che deve imporsi anche sulle convenienze sociali, se tutto ciò che esiste è intimamente corrotto, solo il fuoco, distruttore e purificatore insieme, può riportare il mondo alla sua originaria innocenza. E così avviene, a chiusura de “Il crepuscolo degli dei” e dell’intera saga.
Ma per il momento non siamo ancora giunti a questo punto e con “Siegfried” la corsa precipitosa verso il nulla conosce una breve sosta. Un’atmosfera serena, fra il giocoso ed il fiabesco, accompagna le imprese dell’eroe che, con la sua sublime innocenza, sembra avere in sé la forza per sanare la ferita che si è aperta nel mondo. Così non sarà, perché negli eventi esiste una necessità che deve realizzarsi e che nessuna forza può deviare dalla sua fatale conclusione. Quindi Siegfried, nonostante il suo assoluto candore così simile a quello di Parsifal, non riuscirà a realizzare il piano di Wotan e a restituire l’oro alle Figlie del Reno ricostruendo l’originaria innocenza del mondo. Ma nel frattempo vediamo l’eroe sconfiggere il drago Faffner ed impossessarsi dell’anello magico che dona il potere sul mondo a chi rinuncia all’amore, per poi affrontare altre prove iniziatiche il cui superamento gli permette di raggiungere la pienezza del proprio destino nell’amore di Brunhilde. La Walkiria addormentata, con la sua chioma traboccante e le sue forme femminili, gli fa conoscere quei brividi di paura che neppure le fauci spalancate del drago avevano saputo trasmettergli; così Siegfried giunge alla percezione del suo vero sé nella conoscenza dell’elemento femminile opposto a sé.
Ma a Robert Carsen e Patrick Kinmonth, responsabili il primo della regia il secondo delle scene e dei costumi dello spettacolo rappresentato alla Fenice, non interessa rispettare la concezione originaria del “Siegfried” wagneriano, la sua identità di momento in cui la tensione che attraversa la saga dell’Anello del Nibelungo si sospende in un’oasi di serenità. Carsen attraverso il “Siegfried” vede in filigrana il “Crepuscolo degli dei”, le cui cupezze, quindi, allungano ombre inquietanti anche sulla vicenda dell’eroe fanciullo. La stessa componente giocosa, a tratti umoristica del “Siegfried”, nella visione del regista canadese assume toni aspri, sardonici, perde la sua innocenza naturale.
Su questa linea, il bosco e la caverna ove abita Mime secondo il libretto, diventano una discarica disseminata di oggetti di ogni tipo in mezzo alla quale sta una roulotte lurida e fatiscente; la foresta di Fafner tramutato in drago diventa un luogo da day after disseminato di tronchi d’albero privi di fronde e di foglie, immagine della non vita; le fauci del drago sono rappresentate da due enormi ganasce metalliche che calano dall’alto a inghiottire Siegfried; nel finale, la desolazione del luogo ove giace Brunhilde immersa in un sonno perenne protetto dalle fiamme è l’ambiente più adatto per un rapporto d’amore, quello tra la Walkiria e Siegfried, che Carsen non fa sbocciare in maniera spontanea e liberante, ma immagina contrassegnato sin dal suo sorgere da timori e ritrosie, in un gioco estenuante di approcci e ripulse, di speranze e delusioni, un presagio delle difficoltà insormontabili che quell’amore incontrerà ne “Il Crepuscolo degli dei”.
Insomma, non c’è gioia nella tetralogia wagneriana come la vede Carsen, non c’è speranza. Neppure nel “Siegfried”, che pure questi sentimenti alimenta attraverso la musica ed i versi. Ma questa concezione registica, che può essere incongrua sul piano concettuale, convince su quello artistico, grazie soprattutto al lavoro accurato e puntiglioso che Carsen dedica alla costruzione dei personaggi e che fa del suo teatro autentico teatro di “regia” nell’accezione più precisa del termine, nel dilagare odierno di un teatro d’opera soprattutto di “scenografia”. In realtà, ciò che interessa a Carsen è ridare vita e vigore agli stereotipati eroi wagneriani, evidenziando l’umanità che nascondono sotto il cimiero: la scelta dell’ambientazione spazio-temporale diventa funzionale a questo obiettivo.
Ciò che si vede in scena non trova corrispondenza nel golfo mistico, ove la direzione di Jeffrey Tate si impone per lucidità, chiarezza e trasparenza, nella ricerca di un equilibrio quasi neoclassico che evita la retorica di certe interpretazioni wagneriane epicheggianti e mantiene i diversi piani sonori sotto un controllo rigoroso ma mai raggelante, bensì sempre ricco di vita e di calore. Anche quando l’enfasi sembrerebbe voluta dalla partitura stessa, Tate la evita facendo espandere il suono con una pienezza ed una pulizia che rinunciano a qualunque forzatura ad effetto. Una direzione di altissimo livello, sulla scia di quanto ascoltato lo scorso anno ne “La Walkiria”.
In piena sintonia con la visione musicale di Tate è il Siegfried del tenore tedesco Stefan Vinke, di impostazione quasi belcantistica, capace di sfumare e modulare, dalla emissione pulita e dal suono nitido, eppure di una saldezza vocale adamantina considerata la difficoltà e la lunghezza della parte, uno dei ruoli tenorili più onerosi della storia del melodramma. Un difetto? Ci sarebbe piaciuto più squillo, qualche acuto baldanzoso scagliato verso il cielo a sancire la libera esuberanza dell’eroe. Ma è tutta la compagine maschile del cast ad impressionare positivamente. A cominciare dallo straordinario Mime del tenore austriaco Wolfgang Ablinger-Sperrhacke, mai un accento fuori posto o caricato, mai un gesto inutile, eppure vivido e viscido come deve essere, gonfio di umori maligni, per giunta dotato di una voce ampia e squillante come è ben raro trovarla negli specialisti del ruolo. Imperativo come già ne “la Walkiria” dello scorso anno, straordinario per consistenza, omogeneità e robustezza dell’emissione, il Wotan del baritono statunitense Greer Grimsley, cui gioverebbe solo qualche suono più raccolto e qualche dinamica più contenuta. Molto bene anche il nevrotico Alberich del basso-baritono belga Werner Van Mechelen, che sembra ispirarsi, per intensità interpretativa e ben timbrata vocalità, al suo illustre conterraneo e collega di corda José Van Dam; ed il Fafner non solo tonante ma anche dolente del basso islandese Bjarni Thor Kristinsson.
Meno soddisfacente il versante femminile, ove il soprano Jayne Casselman ha sostituito con grande generosità ma con esiti non esaltanti l’indisposta titolare del ruolo di Brunhilde, Susan Bullock, dimostrando buona disposizione scenica ma anche un’emissione che appena sale tende a sfuggire al controllo, sfociando in suoni bradi e troppo taglienti per orecchie latine. Migliorabili anche l’Uccello della foresta del soprano statunitense Inka Rinn e l’Erda del contralto olandese Anne Pellekoorne.
Alla fine, successo caldissimo, con i toni del trionfo per il direttore Tate e per gli interpreti di Siegfried, Wotan e Mime.
Adolfo Andrighetti
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