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Un flauto magico figlio dell’Illuminismo

02/05/2006
Forse l’errore sta nel cercare a tutti i costi una chiave interpretativa unitaria del Flauto Magico, l’estremo capolavoro mozartiano andato in scena in questi giorni alla Fenice; una pretesa che deriva dalla nostra ambizione razionalistica, figlia dell’Illuminismo, che ci spinge a classificare e definire la realtà, anche quella artistica, secondo degli schemi prefissati e talvolta preconcetti, per cui ciò che non vi rientra viene smussato, anche mutilato, riportato alla conformità.

Eppure, il Flauto Magico rifugge dagli schemi. E anche Mozart, che era sì figlio dell’Illuminismo, ma in una maniera tutta sua, secondo una visione ove l’umanesimo massonico, innervato anche da un vago essoterismo, non rifiutava la tradizione cattolica e non si appagava di un razionalismo astratto e privo di anima. E fuori degli schemi Mozart lo è in maniera particolare nella sua produzione teatrale e soprattutto nelle commedie, ove il suo genio ondivago, irrequieto, lo porta ad alternare lo spunto impegnato allo sberleffo, che spesso prende di mira ciò che prima sembrava serio, per cui non si sa dove cominci l’uno e finisca l’altro e non si capisce a cosa si debba riconoscere la priorità, se al messaggio per così dire educativo o alla risata che subito lo sdrammatizza. Allora, se si rinuncia alla pretesa di schematizzare, si capisce che da prendere sul serio è la geniale complessità di Mozart, il suo coraggio di essere così come ci appare e come forse era realmente: proteiforme, contraddittorio, spiazzante.

Tutto questo vale in maniera particolare per il Flauto Magico, la cui principale caratteristica è rappresentata dalla eterogeneità degli stili e dei motivi ispiratori. La fiaba, in effetti, si fonde con la tematica edificante cara alla Massoneria e legata ad una superiore saggezza cui si può attingere solo attraverso una serie di prove iniziatiche; la vena popolare, semplice ed istintiva, espressa anche sul piano musicale da Papageno, si alterna a quella colta, elevata, riferita ai personaggi di Tamino, di Sarastro e, in generale, al mondo degli iniziati; l’amore istintivo e secondo natura, che contraddistingue la coppia Papageno – Papagena, convive in piena dignità accanto a quello, aperto verso la piena consapevolezza di sé e del mondo, che caratterizza Tamino e Pamina; last but not least, il principio solare, luminoso, maschile, incarnato da Sarastro, si contrappone a quello notturno, oscuro, femminile, impersonato da Astrifiammante, la Regina della Notte.

A questo punto, appare abbastanza chiaro che l’unico modo per capire il Flauto Magico è accettare la ricchezza degli elementi che lo compongono in maniera anche contraddittoria e farli convivere secondo la logica massonica cara anche a Mozart della coincidentia oppositorum: il superiore equilibrio, cioè, ottenibile armonizzando le tensioni e le spinte apparentemente opposte che agitano la vita ed il cuore dell’uomo. Lo stesso equilibrio, la stessa armoniosa comprensione delle debolezze umane, che spinge la contessa a cantare il suo nobile e umanissimo “perdono” al conte nel finale delle Nozze di Figaro. Che consente a don Alfonso, nel “Così fan tutte”, di concludere nella pace la sua burla infernale, così simile ad un percorso da iniziati ove la sperimentata fragilità dell’amore uomo – donna nulla toglie al suo valore e alla sua bellezza. Che, infine, nel “Flauto magico”, racchiude in unico abbraccio la coppia giocosa e popolaresca e quella matura e razionale; spinge Tamino a entrare nel tempio della saggezza, sintesi degli altri due templi dedicati alla ragione e alla natura; porta, soprattutto, la superiore luminosità di Sarastro a disperdere le tenebre di Astrifiammante, non prima però che quest’ultima abbia dato il suo contributo al raggiungimento dell’armonia universale.

Se lo spirito del Flauto Magico è espresso nel modo più fedele dal principio della coincidentia oppositorum, è evidente che ogni regia che punti su di un unico elemento della geniale miscellanea ideata da Mozart e dal librettista Schikaneder, è riduttiva. Lo è, quindi, anche quella ideata dall’inglese Jonathan Miller, che, insieme allo scenografo Philip Prose, autore anche dei bellissimi costumi ispirati all’epoca della composizione dell’opera, ambienta la vicenda all’interno di un circolo di illuminati massonici, ove l’elemento scenografico dominante è rappresentato da un’enorme biblioteca i cui scaffali si perdono senza fine verso l’alto, simbolo della razionalità e della conoscenza destinati a disperdere le tenebre dell’ignoranza e della superstizione (rappresentate queste ultime, secondo correttezza politica squisitamente anglosassone, dalla Chiesa cattolica).

E’ ovvio che tale scelta, più che legittima sul piano concettuale, sacrifica, però, la rutilante ricchezza di temi sottesa al Flauto Magico, tutti necessari per giungere alla saggezza, al mirabile equilibrio degli opposti. Di conseguenza, quando è l’elemento fiabesco o popolare a dominare sulla scena e nella musica, la grigia biblioteca con i suoi simboli massonici sembra ridursi alla funzione di un mero elemento di definizione e di chiusura dello spazio, senza alcun riferimento con ciò che si vede e si ascolta. Ma tuttavia, siccome in teatro ciò che conta non è l’idea ma la sua realizzazione, va detto che, nel suo complesso, lo spettacolo si snoda con efficacia e funzionalità secondo dei meccanismi che si capisce messi a punto da una mano abile ed esperta; e gli interpreti sulla scena si muovono in base ad una visione chiara del particolare e dell’insieme.

Tra questi è piaciuto Vito Priante, baritono napoletano ventisettenne che avevo già apprezzato nel “Matrimonio segreto” di Cimarosa; il giovane artista dà vita ad un Papageno cordiale eppure misurato, assolutamente moderno nella definizione comica, dal fraseggio espressivo e dalla vocalità rotonda ed omogenea, anche se il volume non può definirsi imponente. Accanto a lui si è distinto un altro giovane, il tenore argentino ventottenne Juan Francisco Gatell, un Tamino dal timbro luminoso, ricco di comunicativa e slancio tenorili, dalla voce sonora e ben proiettata. Va migliorato, però, il gioco delle dinamiche, che deve essere reso più vario al servizio dell’interpretazione. Sul Sarastro del basso Ethan Herschenfeld, prudentemente uscito a salutare il pubblico alla fine della rappresentazione in compagnia della Regina della Notte, basti dire che siamo al di sotto del livello vocale richiesto dalla parte, che non può essere risolta soltanto attraverso le note gravi. Più nel personaggio, considerato anche il minor impegno del ruolo, il basso tedesco Matthias Holle, un Oratore dalla vocalità nobile anche se non più fresca. Positivo e professionale l'apporto del tenore portoghese Mario Alves come Monostatos ed eccellenti i due armigeri di Ladislav Elgr e Luca Dall’Amico. Ben preparati sul piano musicale e disinvolti in scena i Tre Fanciulli, voci bianche soliste provenienti dal Tolzer Knabenchor.

Sul versante femminile, la Pamina del soprano moldavo Tatiana Lisnic si segnala per la vocalità luminosa ed espansiva, anche se da affinare sotto i profili della flessibilità e del controllo dell’emissione, entrambi messi a dura prova nei passi più impegnativi richiesti dal ruolo. La Regina della Notte del soprano inglese Penelope Randall-Davis supera, nella sua seconda aria, alcune difficoltà accusate nella prima e riesce a conferire la giusta incisività e sonorità agli avvolgenti e svettanti vocalizzi imposti dalla parte. Superiori ad ogni elogio, per simpatia scenica, affiatamento e resa vocale, le Tre Damigelle (Liesl Odenweller, Alexandra Wilson, Victoria Massey) e apprezzabile anche Sofia Soloviy nel breve ma importante ruolo di Papagena.

Mi è andata molto a genio la direzione di Gunter Neuhold, che conduce l’Orchestra della Fenice ad una cordiale e generosa cantabilità, che esalta gli aspetti più semplici ed umani della partitura e riempie di gioia il cuore di chi ascolta. Corposo e compatto il coro del Teatro sotto la sempre più apprezzata guida di Emanuela Di Pietro.



Adolfo Andrighetti

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