Pavarotti: un paradiso di voce per tutti
Pavarotti era simpatico, molto simpatico, anche a chi non aveva mai messo piede in un teatro d’opera né l’avrebbe mai fatto. A ciò contribuiva, certo, la seduzione esercitata dal mito, che, una volta creato, si alimenta da sé e costringe comunque all’ammirazione. Ma il fatto è che il mito, sostenuto dalla voce smagliante e cristallina, era incarnato non da una fisionomia asciutta, altera, scostante, di quelle che incutono soggezione perché tengono le distanze, ma da un corpaccione esuberante e pieno di vita, da un sorriso semplice e radioso come quello di un bambino felice. Un bambino troppo cresciuto, sembrava Pavarotti, quando si compiaceva, con una soddisfazione così solare ed istintiva che pretendeva ed otteneva subito la condivisione da parte del pubblico, della bellezza dei suoi acuti; quando esibiva senza ritegno, con simpatica ed allegra sfrontatezza, il suo look carnevalesco, fatto di camicioni dai colori inguardabili, di sciarponi variopinti, di una tinta al nero seppia che faceva del suo faccione allegro una maschera da Mangiafuoco bonario. Un bambino enorme, goloso di musica, di cibo e di vita, felice della sua sovradimensione, nonostante alcune vicende sofferte e anche drammatiche come la passione in età matura per la segretaria Nicoletta e la conseguente, traumatica separazione dalla moglie Adua, che aveva avuto un ruolo fondamentale nella sua affermazione di artista. E come la morte, avvenuta durante il parto, del figlioletto suo e di Nicoletta, Riccardo, gemello di Alice, che ora ha quattro anni: un dramma che la pietas umana può accompagnare solo con il silenzio e la preghiera. Eppure tutto Lucianone sembrava poter affrontare e superare con la sua gagliarda bonomia così squisitamente emiliana, con un atteggiamento aperto e disponibile verso la vita, da accettare nel bene e nel male come Dio la manda. Solo la malattia del secolo, un micidiale tumore al pancreas, poteva afflosciare questa allegra mongolfiera di ottimismo e così è puntualmente avvenuto, purtroppo.
Ma Pavarotti non era solo Lucianone o il Big Luciano dei suoi strepitosi successi oltreoceano. Non era solo una fenomenale macchina da soldi, come attestano, per dirne una, i suoi 100 milioni di dischi venduti. Era anche una delle più belle e schiette voci tenorili del secolo XX, dal timbro smagliante per luminosità e lucentezza, raggiante di giovanile baldanza, irresistibile per simpatia e comunicativa. Una voce preziosa anche per il colore argentino e per il controllo di una zona acuta e sovracuta eccezionale, timbrata e squillante come una campana di perfetto conio, cui Pavarotti era in grado di ascendere con assoluta facilità e spontaneità da autentico tenore contraltino pur conservando la pienezza e la pastosità del suo medium da tenore lirico.
Il fraseggio, pur non particolarmente vario e approfondito, era però, anche in virtù di una dizione nitidissima, cordiale ed accattivante, ricco di slancio e di passionalità, screziato di fremiti, stupori ed abbandoni squisitamente giovanili: l’ideale, considerate anche le caratteristiche più strettamente vocali, per personaggi quali Rodolfo della Boheme e Riccardo del Ballo in maschera, forse le sue due migliori interpretazioni in assoluto. I limiti vocali, invece, vanno ricercati soprattutto in una difficoltà nel canto sfumato, a fior di labbro, che poteva suonare forzato e afono, e in una certa carenza di morbidezza.
Con questo strumento privilegiato, dunque, Pavarotti iniziò nel 1961, a Reggio Emilia, in quel ruolo di Rodolfo in cui fu interprete forse insuperato, una carriera che si rivelò presto straordinaria, nel senso che seguì una parabola unica e irripetibile. Prima furono i successi nei teatri, da quelli di provincia ai maggiori nel mondo, poi la popolarità immensa, sconfinata per un artista lirico, fino alle tournee, applauditissime ma discutibili sul piano artistico, dei tre tenori (Pavarotti, Placido Domingo e Josè Carreras). L’abbraccio della folla, il successo anche facile, non gli furono di stimolo sul piano artistico e l’abituarono, nella parabola discendente della carriera, ad una concezione fin troppo divulgativa del suo ruolo di interprete, all’adagiarsi pigro su di un repertorio corrivo e alieno da ogni tentativo, che pure sarebbe stato possibile senza mettere in pericolo il successo, di originalità e di una maggior raffinatezza artistica.
Se così non fosse avvenuto, se non avesse trovato, grazie alla sua comunicativa cordiale e bonacciona e ovviamente alla sua voce privilegiata, la strada di un successo clamoroso di dimensioni mondiali, forse sarebbe stato spinto a studiare di più (non aveva mai trovato il tempo di imparare a leggere uno spartito), ad allargare il repertorio, ad affrontare nuove sfide artistiche, come alcuni suoi celebri colleghi stanno ancora facendo. O forse si sarebbe rassegnato al declino, ritirandosi più o meno prematuramente dalle scene. Non si sa. Ma è certo che, con la sua esuberante generosità di artista che godeva di far gioire la gente con il suo canto anche a costo di sconfinare nel kitsch e in quella che potremmo chiamare demagogia musicale, ha però permesso a tante persone che in teatro non ci andranno mai di fare un’esperienza di pura bellezza qual è quella di ascoltare una splendida voce di tenore spiegata nel canto. Un’esperienza che permette, a noi poveri mortali, di affacciarsi al Divino, se è vero, come ha detto Benedetto XVI, che la voce del Paradiso sarà una musica armoniosa e sublime.
Adolfo Andrighetti