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Maria Callas: vissi d’arte, vissi d’amore

18/09/2007
Sono passati ormai trent’anni dalla scomparsa di Maria Callas, tragico epilogo di una vita che non conobbe la serenità dell’ordinario, del quotidiano, cui la donna segretamente aspirava pur facendo di tutto per tenersene lontana. Trent’anni da quel 16 settembre 1977, quando la Callas abusò di sonniferi nel suo appartamento parigino, per non risvegliarsi più. Eppure il suo mito, ché di mito è proprio il caso di parlare anche in virtù delle sue origini greche e del suo portare nelle fibre dell’interpretazione artistica qualcosa della grandezza della tragedia classica, sembra ingrandirsi con il passare del tempo anziché trovare, come pure sarebbe normale e pure giusto, una collocazione più pacata nella dimensione della memoria.

E’ difficile capire fino in fondo le ragioni di questa inalterabile grandezza postuma. Certo l’artista fu eccelsa e il suo impatto nel teatro d’opera dell’immediato dopoguerra, per certi aspetti ancora legato a cliches stereotipati, fu dirompente. Il suo darsi alla musica, al personaggio che stava interpretando e al pubblico, poi, era totale, soggiogante, magnetico. Il mito nato in palcoscenico, infine, era alimentato da una vita vissuta anch’essa senza risparmio, come quella di una eroina di un melodramma moderno, secondo scelte di una dissipazione mondana da “dolce vita” che intimamente non le appartenevano e che finì per pagare a caro prezzo sul piano umano. Perché chi ha avuto la sua amicizia e il suo affetto, come il tenore Giuseppe Di Stefano, ha riferito anche della fragilità della donna, delle sue insicurezze, del suo bisogno di pace e di protezione dietro i lustrini della diva.

Ora di Maria Callas resta un ricordo che è quasi una presenza ancora viva ed imponente, alimentata dalle innumerevoli registrazioni raccolte in sala d’incisione oppure dal vivo; a testimoniare un fenomeno artistico di grandezza assoluta, basato su di una voce fuori dagli schemi e insieme costruita con pazienza e tenacia sulle fondamenta di una tecnica perfetta. L’insieme dei due fattori, cioè la straordinarietà in senso etimologico dello strumento e la perizia con cui fu utilizzato, portati a incandescenza dal fuoco sacro che animava l’artista, furono all’origine del fenomeno Callas.

L’originalità della voce stava, in primo luogo, in un timbro particolarissimo, non bello nel senso tradizionale del termine, che lasciava a desiderare sotto i profili della rotondità e della omogeneità. Eppure la grande maga seppe trasformare i limiti naturali in una rampa di lancio da cui scagliarsi verso l’empireo artistico. Così la voce “strana”, forgiata dal temperamento della Callas e dalla sua padronanza della tecnica vocale, si rivelò un mezzo straordinariamente personale ed espressivo per cogliere e comunicare ogni sfumatura del testo e della situazione drammatica con un’incisività ed una potenza evocatrice da somma attrice di prosa. Questa capacità magnetica di “essere” il personaggio, di “viverlo” artisticamente attraverso il canto restituendolo in tutta la sua verità drammatica al pubblico o all’ascoltatore (il mio ricordo personale va a Norma ma molti altri esempi si potrebbero portare), fa di Maria Callas un fenomeno che infrange i confini del mondo del melodramma per aprirsi a quello dell’arte senza aggettivi, di cui rappresenta un punto di riferimento nel secolo XX, come bene intuirono uomini di cultura del livello di Visconti o di Pasolini.

Furono in primo luogo la straordinaria duttilità vocale e l’impressionante estensione (si è parlato di tre ottave quando il patrimonio dell’eccellente artista lirico ne comprende di solito due) a permettere alla Callas di restituire con assoluta pertinenza musicale e stilistica un repertorio vastissimo che andava da Rossini a Wagner passando per il classicismo di Cherubini e Spontini e il romanticismo di Bellini e Verdi. La tecnica vocale, poi, fu l’indispensabile supporto al patrimonio fisiologico. Padroneggiata con assoluta sicurezza grazie anche allo studio ed all’impegno maniacali, permetteva alla cantante di piegare la voce non solo, come si è detto, ad ogni più sottile intenzione interpretativa, ma anche, con grande meraviglia di Renata Tebaldi, alle agilità di un repertorio belcantistico che sembrava le fosse proibito per le caratteristiche dello strumento e che invece seppe rivitalizzare ricreando la figura del soprano drammatico di agilità.

Il resto proveniva dal temperamento da autentica leonessa, che le permetteva di dominare partitura e palcoscenico in virtù di un carisma insuperabile e della sensibilità della donna prima ancora che della artista: una sensibilità che, attraverso la sua controfaccia che si chiama fragilità caratteriale, l’accompagnerà, dopo i trionfi memorabili, attraverso il declino fino alla morte prematura.



Adolfo Andrighetti

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