Il mondo è una burla nel “Signor Goldoni” alla Fenice
Se di un gioco si tratta, quindi, accetteremo la fragilità della trama e la vacuità del libretto, per coglierne, invece, i pretesti che offre all’estro musicale di Mosca. Né ci chiederemo quanto questa operazione ha a che fare con Goldoni, che è uno dei personaggi della piece ma non certo il protagonista. Nella logica dello scherzo, dello sberleffo artistico, ci sta pure l’uso dell’inglese, che, messo in bocca a Goldoni, suona quanto meno anomalo. In proposito, non sembra il caso di entrare nel merito delle affermazioni con cui Melega e Mosca spiegano come l’inglese sia la lingua con la quale si trovano più a loro agio nell’espressione artistica: il primo, per le possibilità che un idioma acquisito offre alla ricerca del rapporto suono-significato oltre che per conferire una dimensione internazionale al suo lavoro; il secondo, perché il lessico inglese è ricco di parole brevi, monosillabi e bisillabi, la cui sonorità “incontra” in maniera particolare il suo stile compositivo. L’artista è sovrano assoluto del metodo di espressione prescelto, della cui validità intrinseca non è lecito dubitare, salvo ovviamente discutere del risultato ottenuto. Tuttavia ci si può chiedere se tale metodo, in questo caso l’uso della lingua inglese, sia culturalmente corretto per ricordare un sommo commediografo che, nel corso della sua vita, fece uso letterario dell’italiano, del veneziano e, come ogni persona istruita all’epoca, del francese, ma doveva considerare l’inglese una specie di ostrogoto incomprensibile. Ma a carnevale ogni scherzo vale: e quindi passi pure Goldoni che canta “Is it a he, or is it a she?” per chiedersi “E’ un lui o è una lei?”.
Insomma è evidente che “Signor Goldoni” non offre un omaggio nel senso tradizionale del termine, ma va letto come uno scherzo irriverente, che però non esclude l’ammirazione, giocato da artisti contemporanei ad un padre nobile senza del quale anche loro non sarebbero stati o sarebbero stati diversi. Lo conferma, da ultimo, anche la scelta di una piece tutta imperniata su di un divertito gioco surreale per commemorare un autore che deve il posto che occupa nella storia della letteratura e del teatro alla riscoperta di un solido e sapido realismo borghese.
Il sipario, infatti, si apre sui Campi Elisi, ove l’Anzolo Rafael, quello effigiato sulla facciata della chiesa omonima a Venezia, accompagna Goldoni in un eccezionale ritorno nella sua città natale, ove potrà partecipare, durante un carnevale del tempo d’oggi, ad un ballo in maschera dedicato a Shakespeare e a Venezia. Ai due si unisce il poeta licenzioso Giorgio Baffo, contemporaneo e concittadino di Goldoni. Nel palazzo che ospita la festa i tre incontrano una serie di personaggi mascherati il cui significato simbolico si chiarisce con il procedere della vicenda: Desdemona e Otello, espressione della vena “veneziana” di Shakespeare; Arlecchino in rappresentanza di quel mondo della commedia dell’arte che proprio il realismo goldoniano mise definitivamente fuori moda; Mirandolina, protagonista della Locandiera di Goldoni, in omaggio al suo grande creatore; Despina, l’indiavolata servetta del “Così fan tutte”, per aggiungere, accanto a Goldoni e a Shakespeare, il ricordo di altri due acutissimi esperti della commedia umana quali Mozart ed il veneto Da Ponte. Durante la festa i personaggi si intrattengono con facezie e burle di cui non è necessario riferire, fino a quando Otello si toglie la maschera rivelando di essere Shakespeare e rivolgendo un sincero omaggio al collega Goldoni. Finita la festa, mentre i due personaggi reali, cioè Goldoni e Shakespeare, rientrano ai Campi Elisi con l’Anzolo Rafael, quelli di fantasia, fra i quali si è imboscato Baffo a caccia di avventure, si rifiutano di seguire la sorte degli umani e, al grido di “Il Cielo può attendere!” decidono di rimanere ancora un poco sulla terra, perché “Il mondo è una burla” e “la vita è una commedia da godere”: una filosofia che, anche nella scelta come modulo espressivo del disegno fugato in cui si uniscono e si rincorrono tutte le voci dei protagonisti, non può non ricordare il finale del Falstaff verdiano. Ma mentre quest’ultimo esprime la sottile malinconia del commiato da una vita di cui si è intuita la sostanziale vanità, l’appello delle maschere nel Signor Goldoni suona come un vitalistico invito a godere delle gioie terrene.
Questa vicenda tenue e leggera, per restare all’atmosfera carnevalesca, come un galano spolverato di uno strato sottile di zucchero a velo, è stata rivestita da Luca Mosca di un caleidoscopio di piccoli frammenti sonori nervosi e fortemente ritmati, un tessuto musicale continuamente cangiante che di tanto in tanto trova sbocco in pezzi che sarebbe anacronistico definire forme chiuse ma sono certamente dei momenti chiaramente identificabili, anche se non isolati all’interno del contesto, nella struttura di assoli, duetti, terzetti, concertati. All’interno di questo mosaico sonoro le voci non rivestono un ruolo privilegiato, ma sono una delle componenti di un insieme giocato su di una sorta di contrappunto moderno, in cui tutte le parti, sia vocali sia strumentali, rivestono la stessa dignità ed importanza. Ed è ciò che differenzia maggiormente la concezione di Mosca rispetto al melodramma tradizionale, ove l’orchestra svolge un ruolo di accompagnamento più o meno discreto nei confronti delle voci. Nel “Signor Goldoni”, invece, le parti vocali, che sono state scritte in funzione delle caratteristiche degli artisti scritturati secondo la prassi del teatro settecentesco, cessano di avere quel ruolo dominante che era riconosciuto alla voce umana e, secondo la logica del contrappunto, vengono “trattate” come una delle diverse linee musicali che Mosca intreccia nella sua composizione.
I cantanti, peraltro, sono tutti da lodare incondizionatamente per la preparazione musicale e per l’impegno con cui si sono calati nelle rispettive parti assecondando anche le esigenti indicazioni della regia. A cominciare dall’Anzolo Rafael di Alda Caiello, artista cui va stretta la definizione di soprano per l’abnorme capacità di cui ha dato prova di passare senza soluzione di continuità dai sovracuti sopranili ai gravi quasi androgini del contralto, questi ultimi a dire il vero alquanto artificiosi, nel tentativo di ricreare la vocalità sessualmente indefinita dell’angelo. Per continuare con l’indiavolata Mirandolina del mezzosoprano Cristina Cavalloni, il Giorgio Baffo sapidamente balbuziente del baritono tedesco Chris Ziegler, l’austero e corretto Goldoni del baritono Roberto Abbondanza, il vivace Arlecchino del tenore inglese Michael Bennett, il vigoroso e timbrato Otello del basso svizzero Michael Leibundgut. Lascio volutamente per ultime le due interpreti che hanno ottenuto gli unici applausi a scena aperta della recita cui ho assistito. E mi permetto di preferire, alle acrobazie vocali un po’asprigne del pur bravissimo soprano canadese Barbara Hannigan, la calda brunitura della nobile vocalità contraltile della veneziana Sara Mingardo. Le due arie scritte su misura per lei da Mosca hanno rappresentato una felice oasi di belcanto, ove omogeneità di emissione, legato, canto sul fiato, messe di voce, sono tornate ad essere le armi vincenti.
Se molto bravi sono stati i cantanti, un bravissimo va riservato al maestro concertatore e direttore Andrea Molino, che ha tenuto in pugno buca e palcoscenico governando un materiale sonoro tutt’altro che semplice da controllare per la sua struttura a piccoli frammenti. E altrettanto va detto dell’orchestra e del coro della Fenice, quest’ultimo istruito da Emanuela di Pietro.
Resta da riferire dell’allestimento, che, pur non mancando di pregi, non ha saputo però sopperire alla inconsistenza drammatica del libretto. La regia di Davide Livermore, accuratissima su tutti i personaggi e molto fantasiosa, vuole scandire i movimenti dei personaggi allo stesso ritmo della musica, diventando ipercinetica e sostituendo in molti casi la vivacità con l’agitazione nevrotica. Il palcoscenico, poi, risulta fin troppo gremito di mimi e figuranti, a scapito della chiarezza del discorso teatrale. Apprezzabili le scene di Santi Centineo, che presentano sul lato sinistro una parete costellata di aperture-finestre da cui fanno capolino alcuni partecipanti al ballo in maschera. Nel secondo atto, inoltre, viene offerta sul fondo la felice immagine stilizzata di una platea teatrale vista dall’alto. Belli e colorati i costumi settecenteschi di Giusy Giustino.
Alla fine della recita applausi di stima da parte di un pubblico non ostile ma un po’ perplesso, che è sembrato non volersi sbilanciare.
Adolfo Andrighetti
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