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Asterisco Informazioni di Fabrizio Stelluto

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Al Malibran nella lotta fra i sessi vince l’amore

15/10/2007
Sulle rive del Termodonte, fiume della Cappadocia, la mitologia greca colloca il regno delle Amazzoni, le donne guerriere che devono il loro nome al fatto di essere prive di una mammella per poter maneggiare più agevolmente l’arco e la lancia. Qui, secondo il libretto attribuito ad Antonio Salvi ed intonato da Antonio Vivaldi per la prima del 1723 al teatro Capranica di Roma, si reca Ercole per affrontare, come vuole il mito classico, la nona delle sue dodici fatiche, impostegli dal re di Micene Euristeo. Questa volta è necessario conquistare le armi della regina delle Amazzoni, Antiope. Ercole si avvia all’impresa in compagnia di un eletto manipolo di eroi, cioè Teseo, Telamone e Alceste, il cui spirito guerriero, però, fatalmente si ammorbidisce e si trasforma in amore ricambiato a contatto con le belle amazzoni Ippolita e Martesia, quest’ultima figlia della regina. La vicenda si ingarbuglia a causa di una fitta rete di intrecci che si allacciano intorno al filo conduttore principale. Ma alla fine, com’è ovvio, sulla ostilità fra i sessi prevale l’attrazione reciproca e trionfa amore: Diana, deus ex machina al femminile della storia, sancisce la conclusione dello scontro attribuendo il possesso delle armi contese ad Ercole e benedicendo l’unione di Teseo con Ippolita e di Alceste con Martesia.

Questa la sintesi di quanto si è visto nei giorni scorsi sul palcoscenico del teatro Malibran di Venezia, ove, per la stagione d’opera 2007, si sono alternati due titoli vivaldiani: Ercole sul Termodonte, cui si riferiscono queste note, e Bajazet. L’Ercole, così come l’abbiamo potuto ascoltare, è il frutto del paziente lavoro di ricostruzione della partitura operato da quella benemerita figura di cultore e di musicista che è Fabio Biondi, già apprezzato l’anno scorso a Venezia, insieme con la sua ottima orchestra Europa Galante, nella rappresentazione della Didone di Cavalli. E ascoltando Biondi, direttore e solista, e il suo ensemble, si ha veramente l’impressione che abbiano colto il segreto, semplice eppure esclusivo, per aprire le porte di ogni realtà artistica: accostarla, cioè, con un amore attento, con una partecipazione affettuosa, con una dedizione anche umile, perché sveli il mistero di bellezza che racchiude per la gioia di tutti coloro che hanno la fortuna di partecipare all’evento. L’esecuzione di Fabio Biondi e dell’Europa Galante, infatti, è il tessuto connettivo, l’asse portante su cui si regge la rappresentazione del Malibran; un’esecuzione limpida eppure cordiale, nitida ma comunicativa, che asseconda il cantabile vivaldiano con empatia e accompagna con partecipe sensibilità gli interpreti vocali. Biondi coglie l’essenza dell’estetica del Prete rosso e in genere del teatro d’opera barocco, che risiede nell’enfatizzazione dei sentimenti e delle passioni attraverso un superiore equilibrio formale, che non si contrappone alle emozioni ma è strumento per la loro espressione. La scelta giusta, quindi, non è quella di contrapporre le due componenti di questa visione artistica, la passionalità e il rigido formalismo musicale, facendo una scelta, comunque parziale, a favore dell’una o dell’altro, oppure cercando un faticoso equilibrio fra i due. E’ necessario, invece, muovere dal presupposto che quel tipo di struttura musicale, anche se in apparenza troppo vincolante per la mentalità contemporanea, è esattamente ciò che l’estetica barocca riteneva idoneo per comunicare una gamma di sentimenti cangianti ed appassionati allo scopo di suscitare l’emozione dell’ascoltatore. Il segreto, quindi, consiste nell’accostarsi con affettuosa dedizione a quell’estetica musicale per farci capire, cosa che a Fabio Biondi e alla sua Europa Galante riesce perfettamente, in che modo possa essere veicolo attendibile di stati d’animo mutevoli e anche complessi.

Questo repertorio, per essere restituito con piena attendibilità storica ed artistica, richiederebbe di essere affidato a compagnie vocali dotate non solo di una eccellente preparazione musicale e stilistica, ma anche di una spiccata propensione virtuosistica. Ora, se il primo obiettivo è quasi sempre centrato grazie alla professionalità degli ottimi specialisti che oggi frequentano il teatro d’opera barocco, il secondo è di più incerta acquisizione. Non si tratta soltanto, infatti, di eseguire in maniera tecnicamente appropriata il canto di coloratura, ma anche di farne uno strumento espressivo privilegiato, capace di emozionare e di stupire, di rattristare e di divertire, di commuovere, di spaventare, di sedurre.

Tale risultato, né potrebbe essere altrimenti considerato quanto sia esigente per gli interpreti questo tipo di vocalità, viene conseguito solo a tratti dalla pur ragguardevole compagnia di canto impegnata al Malibran, della quale, comunque, abbiamo trovato più completa e soddisfacente la parte femminile rispetto a quella maschile. A cominciare dal delicato lirismo del soprano Roberta Invernizzi, Antiope, eccellente interprete soprattutto delle arie patetiche a lei affidate (particolarmente suggestiva quella di apertura del secondo atto, “Onde chiare”) per l’omogeneità dell’emissione ed il legato. Brave anche le altre: il mezzosoprano Romina Basso, che restituisce con efficacia e credibilità vocale e scenica la fierezza ma anche i sentimenti materni della regina Antiope; il mezzosoprano Laura Polverelli, più volte apprezzata in questi anni a Venezia, dalla resa artistica sempre brillante e comunicativa quando non affronta ruoli troppo onerosi per il suo strumento, cui è affidato il ruolo “en travesti” di Alceste, l’amante ricambiato di Martesia; quest’ultima è il mezzosoprano tedesco Stefanie Iranyi, che conferisce alla parte tutto il liliale candore che le è proprio, insaporito da una spiccata componente umoristica. Apprezzabile, infine, anche l’Orizia del soprano Emanuela Galli, che ha dato corpo e voce alla più guerriera ed irriducibile fra le Amazzoni. Gli uomini, a loro volta, hanno schierato tre specialisti di valore quali il tenore italiano Carlo Allemano, il tenore inglese Mark Milhofer, il controtenore spagnolo Jordi Domenech. I primi due, rispettivamente Ercole e Telamone, alle prese con una tessitura che insiste spesso nelle zone centrali e con un canto talvolta di forza, si disimpegnano con professionalità ma con esiti non sempre del tutto convincenti. Il terzo, Teseo, conferma le caratteristiche già evidenziate lo scorso anno nella Didone di Cavalli, vale a dire un’ottima sensibilità musicale insieme ad un timbro un po’ovattato e nasaleggiante.

Lo spettacolo è stato allestito con scelte appropriate anche se non particolarmente innovative dalla facoltà di design e arti dello IUAV di Venezia. Il contenitore scenico, apprezzabile perché in sintonia con la musica, è molto semplice e stilizzato, dall’elegante impostazione neoclassica. La regia muove bene i personaggi, alternando tocchi di ironia e di sensualità che si mescolano quando le amazzoni alludono con misura ad una latente attrazione omosessuale fra di loro. I costumi rinunciano ad ogni tentazione mitologica e sono di foggia settecentesca, belli e colorati.

Alla recita cui ho assistito, successo molto caloroso per tutti e vibrante per Fabio Biondi.

Adolfo Andrighetti

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