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Amor sacro e amor profano in “Thais” alla Fenice

29/10/2007
Dunque “Thais”: come dire profumi inebrianti che stordiscono i sensi, voluttuose seduzioni, atmosfere dolcemente corrotte. E’ l’anno 1898 quando Jules Massenet rappresenta all’Opera di Parigi la seconda e definitiva versione di “Thais”, dopo che la prima, andata in scena nello stesso teatro nel 1894, ha avuto un esito incerto, forse non negativo ma comunque non paragonabile ai trionfi cui Massenet era abituato. Siamo, quindi, al tramonto del secolo XIX, quel fin de siecle languido ed estetizzante, che oscilla fra tardo romanticismo e primo decadentismo, alla ricerca, in ambito teatrale e non solo, di emozioni rarefatte ed esotiche, di soggetti attraversati da una sottile vena di compiacimento morboso, insomma di trasgressioni a buon mercato.

Frutto di questo gusto è il recupero letterario del personaggio di Taide, la bellissima attrice e cortigiana di Alessandria d’Egitto beatificata dalla Chiesa. Secondo la tradizione, infatti, Taide si convertì alle parole ed all’esempio del cenobita Paphnuce, rifugiandosi in un convento dove morì dopo qualche anno trascorso nella preghiera e nella penitenza. Le potenzialità suggestive del soggetto non sfuggirono allo scrittore Anatole France e al suo gusto raffinato e dissacratore. Questi, infatti, nel suo romanzo “Thais”, immaginò che il monaco fosse vinto dal fascino della seducente femmina di cui pure aveva ottenuto la conversione.

Dal best seller di France ai palcoscenici dell’Opera il passo compiuto dalla cortigiana alessandrina fu breve. Ci pensò il librettista Louis Gallet, già sperimentato con successo da Massenet e da altri compositori come Gounod, Saint Saens e Bizet, a trarre dal romanzo un testo teatrale che ne rispetta sostanzialmente trama e contenuti, pur rinunciando all’ironia anticlericale con cui France lo aveva insaporito. La vicenda, dunque, racconta di due mondi profondamente diversi e distanti nella raffinata Alessandria d’Egitto del IV secolo dopo Cristo: la comunità dei monaci che, nel deserto della Tebaide, vive con serenità in una dimensione quasi atemporale; e la variopinta e lasciva compagnia che si raccoglie attorno a Thais, attrice e cortigiana ma anche sacerdotessa del culto di Venere, estrema seguace di quegli antichi culti pagani legati alla fecondità che stanno per essere spazzati via dalla religione del Crocefisso. Un monaco, Athanael, che ha incontrato in passato Thais, non riesce a liberarsi del suo ricordo e decide di recarsi in città per redimerla. Affronta, con l’orgoglio della propria superiorità morale, il mondo sensuale e corrotto di cui Thais è la regina incontrastata e la incita a cambiare vita. Lì incontra anche Nicias, suo amico d’infanzia e ora amante della donna. Thais, che in un primo momento aveva deriso le parole infuocate del monaco, poi si lascia convincere dalla visione di un amore eterno contrapposto alla fugacità della bellezza umana e accetta il duro cammino di conversione che le viene proposto. I due, quindi, fuggono dalla città corrotta e si inoltrano nel deserto sopportando fatiche e sacrifici di ogni tipo, fino a quando Thais viene affidata ad una comunità di monache. Ma il viaggio, che ha purificato l’ex cortigiana, ha invece acceso in Athanael il demone della passione. L’uomo, ormai ossessionato dall’immagine della splendida creatura che ha convertito, avvisato in sogno della prossima fine di lei, corre in tempo solo per raccoglierne l’ultimo respiro pacificato e per urlare la propria disperata professione di fede nella passione amorosa come l’unica verità attingibile agli esseri umani.

Nel suo raffinato spettacolo, la ripresa con alcune modifiche di quello che aveva felicemente inaugurato la stagione d’opera 2002-2003, Pier Luigi Pizzi cerca e trova nel conflitto tra erotismo e misticismo la chiave di lettura per un testo di facile interpretazione concettuale ma, forse proprio per questo, di non semplice resa teatrale. Pizzi, con il gusto infallibile che gli è proprio, evita i rischi dell’esotismo kitsch come quelli dell’astrattezza intellettualistica. Ambienta con pertinenza, all’interno di una scenografia costruita in base a linee e volumi di elegante geometrizzazione nel primo e terzo atto ed affascinanti atmosfere simbolicamente evocative nel secondo, tanto i momenti di affocata sensualità quanto quelli di ispirazione mistica. I primi, affidati soprattutto alle coreografie suggestive e di notevole bellezza figurativa di Gheorghe Iancu, pur nella loro evidenza seduttiva evitano la volgarità e raccontano con eleganza non solo l’erotismo raffinato e blasé di cui è impregnato il mondo di Thais, ma anche quello travolgente e impulsivo latente nell’animo di Athanael. Le scene monacali, invece, ambientate nel cenobio maschile nel primo atto e in quello femminile nel terzo, sono rese in maniera molto efficace attraverso movimenti rituali ed austeri valorizzati dal candore delle vesti.

Altra caratteristica distintiva di questo allestimento è il ricorso felice al simbolo. Basti citare il letto di rose che nel secondo atto è alcova ove si celebrano i riti di Venere e poi, caduti i fiori e rimasto soltanto lo scheletro di un cespuglio irto di spine, è il giaciglio ove Thais consuma la sua agonia di redenzione. O la coreografia che anima la Meditation religieuse del II atto, il brano più famoso dell’opera, che, affidato alla sola orchestra, esprime la conversione di Thais addormentata. Qui la bravissima ballerina solista Letizia Giuliani ci dona forse il momento più suggestivo della serata, compiendo sensuali ed eleganti evoluzioni su di una struttura metallica a forma di tau per poi rimanervi distesa nella posizione tipica del crocefisso: il simbolo della carnalità di Thais che, con la conversione, viene consacrata al Dio della croce. E ancora, nel III atto, la selva di croci candide, a simboleggiare il cammino di purificazione che deve compiere Thais verso la salvezza ma forse anche il groviglio psicologico all’interno del quale Athanael è rimasto intrappolato a causa del suo peccato: la conversione della sacerdotessa di Venere voluta come estrema gratificazione del proprio orgoglio più che in obbedienza alla volontà divina. Insomma, uno spettacolo in cui Pier Luigi Pizzi ha potuto esaltare le ben note doti di raffinato evocatore di atmosfere e quindi forse il più riuscito fra i numerosi che ha realizzato per i palcoscenici veneziani, insieme all’indimenticabile Parsifal del 1983.

La musica di “Thais” è un tessuto orchestrale continuamente cangiante come onde accarezzate dal vento, screziato di pennellate sonore che sembrano alludere a Debussy alternate a squarci melodici di più ampio respiro. Questo materiale sonoro viene affrontato dal direttore francese Emmanuel Villaume con piglio deciso, con una concezione musicale sana e volitiva, che immette nella partitura dinamicità e intensità evidenziandone i non infrequenti echi wagneriani. L’ispirazione preimpressionista, con le sue raffinate sfumature, ne esce forzatamente ridimensionata, ma l’orchestra risponde con bellezza e compattezza di suono, la partitura sembra acquistare vita e vigore, il risultato musicale complessivo è eccellente.

In piena sintonia con il gusto del direttore e concertatore è l’Athanael del basso baritono Simone Alberghini, che, con mezzi vocali sicuri e apprezzabile partecipazione emotiva, si impone soprattutto per l’intensità drammatica e il pathos della sua performance. Discontinua e nel complesso deludente, invece, la Thais del soprano bulgaro Darina Takova, a disagio con il fraseggio massenettiano ed incapace di trovare il giusto equilibrio in un’emissione che, nei primi due atti, oscilla fra il flebile ed il fortissimo, ignorando le gradazioni dinamiche intermedie. Nel terzo atto le cose migliorano e l’artista riesce a trovare un maggiore equilibrio vocale, con acuti più controllati e sonorità più omogenee; ma troppo tardi per raddrizzare una prestazione compromessa all’origine da una parte forse non adatta alle caratteristiche vocali dell’interprete o accostata in maniera non corretta.

Funzionale e vocalmente efficiente il tenore ucraino Kostyantyn Andreyev nel ruolo di Nicias, un personaggio che offre, a chi volesse coglierle, stimolanti opportunità interpretative, legate alla sua indole di viveur ironico e disincantato ma dal cuore generoso. Affiatata e sensuale al punto giusto la coppia formata dalle belle schiave Crobyle e Myrtale, rispettivamente il soprano Christina Buffle e il contralto Elodie Méchain. Perfettamente a fuoco sia il raccolto e pacato Palémon del basso francese Nicolas Courjal sia l’austera Albine del mezzosoprano Tiziana Carraro. Corretta ma poco seducente sul piano vocale la Charmeuse del soprano Elena Rossi. A posto il Servitore di Enrico Masiero, artista del Coro del Teatro La Fenice.

Alla recita cui si riferiscono queste note si è registrato un caldo successo, con punte di particolare simpatia per Emanuel Villaume e Pier Luigi Pizzi, apparso anch’egli sul palcoscenico a raccogliere i meritatissimi applausi del pubblico veneziano.

Adolfo Andrighetti

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