I gusti del Lambro
La cucina lombarda, e quella milanese in particolare, pur nel rispetto dei prodotti poveri, è ricca di cultura del gusto per la trattatistica degli autori lombardi, da Bonvesin del La Riva che, nel 1288, scrisse le Cinquanta cortesie da tavola 260 anni prima del tanto conclamato Galateo. Mastro Martino da Como, che descrisse le ricette del Quattrocento nel trattato de arte coquinaria portando la sua cultura conviviale alle tavole del Patriarca d’Aquileia, Bartolomeo Scappi, nato a Dumenza sulla sponda orientale del Verbano, pubblicò a Venezia nel 1570 l’Opera dell’arte del cucinare: libro di testo per tutti i cuochi del tempo. Felice Luraschi, che codifica definitivamente il risotto giallo nel Nuovo cuoco Milanese del 1823; Giuseppe Fontana, chef del Savini dal 1905 al 1929, che nel suo libro La cusinna de Milan ha messo in rime milanesi le sue ricette, ed infine Gualtiero Marchesi che, con il suo libro La mia nuova grande cucina italiana del 1980, si pone come capofila dei fautori della cucina creativa collegata al rinnovamento della nouvelle cuisine.
L’abbondanza delle acque ha reso possibile la coltivazione del riso che trionfa nella variazione sul tema dei risotti, intesi come riso lungo, tostato, cotto per assorbimento totale del brodo partendo da un fondo grasso e mantecato alla fine con burro freddo e formaggio grana grattugiato, in alternativa Pannerone o gorgonzola. I monaci cistercensi fecero dell'Abbazia di Chiaravalle il caposaldo della colonizzazione agricola della "bassa" campagna a sudest del capoluogo lombardo e la sistemazione della campagna, bonificata dalla fitta rete di canali, determinò lo sviluppo dell'allevamento dei bovini e quindi il prosperare dell'industria casearia lombarda. Già nel XV secolo i monaci dell’Abbazia di Chiaravalle fabbricavano il cacio duro da grattugiare nella cascina Tecchione, a quei tempi di loro proprietà: una paternità rivendicata da altre parti lombarde, tra le quali Lodi, dove le forme di grana giovane si passano con una raspa per ottenere dei trucioli noti come raspadura.
Con gli avanzi del bollito, tritati e fritti in pallottole impanate, si fanno i mondeghili, che derivano il loro nome da quello che gli Arabi danno alla palla: al bundukc, da cui lo spagnolo albondiga e quindi albondeguito e quindi mondeghili. Le polpette, invece, sono costituite da fettine di carne avvolte attorno a diversi tipi di ripieni di carni tritate e Giovanni Rajberti annotava nel suo libro “Arte di convitare” del 1850 che: la vera metropoli delle polpette è Milano, dove se ne fa gran consumo. Ricordo di aver sentito un vecchio conte esclamare “se si potessero raccogliere tutte le polpette che ho mangiato in vita mia, vi sarebbe da selciare la città da Piazza Duomo a Porta Orientale”. Nella variante dei Polpett de verz si sostituisce la fettina di carne con una foglia di verza lessata che avvolge il ripieno e che richiama la trionfale posciandera esaltazione delle parti del maiale non utilizzabili per confezionare salami e salumi. Quando gli spagnoli giunsero a Milano diedero all’antico piatto celtico il nome del contenente, come è loro abitudine (vedi paella, ecc.) e quindi la posciandera è diventata cazzoeula ( la casseruola in spagnolo).
Il ragò d’oca può definirsi il parente lomellino della cassoeula milanese, con l’oca al posto del maiale; è un piatto tradizionale che trova le sue origini nella cucina kasher della comunità ebraica, insediatasi in questo angolo lombardo nel XV secolo per concessione di Ludovico il Moro, dove con fantasia si cercavano alternative alle più tipiche pietanze di carne di maiale. I gnervitt sono ottenuti dalla lessatura dei tendini del vitello. La charlotte a Milano ha conservato il pane raffermo del pudding inglese senza indulgere alla sostituzione delle fette di pane raffermo con i sofisticati savoiardi.
Si deve rilevare come Milano, città opulenta per antonomasia, riservi una particolare attenzione ai prodotti poveri nella sua cucina. Segno di estrema evidenza: la trippa, conosciuta e apprezzata con il nome dialettale di “busecca”, e tenuta in tale considerazione da far assegnare ai milanesi l’appellativo di “bûsecconi”. Carlo Porta, nel suo Brindes de Meneghin all’osteria, scritto nel 1815 in occasione dell’entrata a Milano di Francesco I d’Austria, definisce “buseccona” la consorte del Principe, Maria Luisa, perché era nata a Milano. “Busecca”, derivato dal germanico butze = viscere, da cui buzzo, nel senso di interiora di animali, ma traslato a ventre grosso, è sinonimo di uomo panciuto e affidabile, di buzzo buono, sta a significare di buona lena: un epiteto che ben si adatta ai milanesi “busecconi”.
a cura di Giovanni Staccotti
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