"Luisa Miller" di Verdi alla Fenice
Resta il fatto che Luisa Miller, il melodramma di Verdi in scena in questi giorni alla Fenice, ha bisogno di voci per reggersi in piedi e trasmettere al pubblico quanto di meglio possiede, valorizzando la sua cifra stilistica discontinua e il suo alternare, sovrapporre e fondere soluzioni musicali e drammatiche molto diverse fra loro, che da un lato riecheggiano la stagione del primo melodramma romantico italiano, dall’altro prefigurano il suo superamento verso forme espressive nuove. In quest’opera del 1849, infatti, Verdi affina i propri strumenti in preparazione del Rigoletto, che segue nel 1851 e che, come è noto, segnerà una profonda e quasi rivoluzionaria innovazione, sul piano drammaturgico oltre che musicale, non solo nel percorso verdiano ma in tutta la storia del melodramma dell’800. A “Luisa Miller” Verdi si dedicò di malavoglia o almeno con scarsa convinzione, per evitare ritorsioni contrattuali da parte del committente S.Carlo di Napoli nei confronti del librettista Salvatore Cammarano: probabilmente anche per questa ragione l’opera, che di quando in quando accenna il decollo, non prende mai il volo definitivamente e trova solo nel terzo atto quella verità artistica che Verdi cercava come obiettivo della propria missione di musicista.
Nonostante i limiti oggettivi dell’opera, che si situa in una zona grigia di transizione fra le arroventate e trascinanti partiture degli anni di galera e le ben più approfondite soluzioni drammatico – musicali della cosiddetta trilogia romantica, le cose alla Fenice non sono andate male. Merito, in primo luogo, dell’appassionante e appassionata direzione di Maurizio Benini, autenticamente verdiana, vivida e vitalistica nei momenti più serrati della partitura, ma capace di conferire il giusto risalto anche ai ripiegamenti lirici, come la stupenda scena Luisa – Miller del terzo atto, forse il momento più riuscito ed alto dell’intera opera. Una direzione, insomma, che non si lascia condizionare dalla mancanza di una univoca cifra stilistica nella partitura, quello che Verdi chiamava il “colore”, ma la affronta momento dopo momento cavandone sempre il meglio anche sul piano delle sonorità, sempre rotonde, compatte, eppure morbide quando occorre. Da elogiare, quindi, anche l’orchestra della Fenice.
Bene, nel complesso, anche lo spettacolo, che il regista francese Arnaud Bernard, con scelta azzeccata anche se non originalissima, sposta dal Tirolo del XVII secolo al nostro ventennio, in un villaggio di contadini tiranneggiato da un manipolo di fascisti con tanto di fez, stivaloni e manganello (a proposito, belli e appropriati i costumi, anche quelli di borghesi e contadini, curati da Carla Ricotti). In questo modo, infatti, come osservava lo stesso Arnaud, si ha la possibilità di recuperare quella componente politica che era presente nel dramma originale di Schiller da cui “Luisa” deriva e che il libretto di Cammarano perse per strada, un po’ per non provocare la censura del Regno delle Due Sicilie, un po’ per ragioni di funzionalità teatrale. Il lavoro di Schiller, Kabale und Liebe (Intrigo e Amore), uno dei capolavori dello Sturm und Drang, rappresenta l’eterna vicenda del potere che, quando incrocia le proprie trame con la vita semplice della gente comune, la schiaccia e la travolge senza riguardi. Ecco allora che la storia del superbo conte di Walter, disposto, con l’aiuto dell’abbietto Wurm, a passare sopra i sentimenti e la vita stessa di Luisa e del padre di lei Miller purché non si venga a sapere in giro come si è guadagnato il titolo e il figlio faccia il matrimonio “giusto”, ben si presta ad essere ambientata in un regime dittatoriale, che fa della violenza la propria ragione d’essere. Una scelta che spiega e giustifica anche la recitazione imposta agli interpreti, caricata e di maniera, un po’ volgarotta e sopra le righe come in un film d’epoca, tutto un mettersi le mani addosso, sbattere sedie per terra e oggetti vari sul tavolo. Al punto che, fra i costumi e il gran dimenare braccia e mani, sembrava di assistere alla Cavalleria rusticana più che alla Luisa Miller.
La scenografia di Alessandro Camera, ridotta ad alcune strutture geometricamente modellate a limitare lo spazio scenico, è apparsa, nella sua essenzialità modernista, stilisticamente intonata all’epoca di ambientazione dell’opera. Inutili, invece, i pannelli giganti con raffigurazioni femminili che compaiono di tanto in tanto. Suggestivo e intonato alla scelta scenografica il gioco luci di Vinicio Cheli.
Sul palcoscenico, ha gesticolato e si è agitata con molto impegno una compagnia di canto professionale ed apprezzabile. Una volta messa forzatamente da parte la curiosità di ascoltare il fine cesellatore Giuseppe Sabbatini in una parte che egli stesso ha definito un po’ spinta per le sue caratteristiche vocali, abbiamo potuto apprezzare l’autentica tempra di artista di Darina Takova. Il soprano bulgaro conferisce pieno risalto al personaggio di Luisa sia sul piano teatrale, grazie anche ad una recitazione più composta di quella affidata ai colleghi, sia su quello vocale, ove domina senza problemi tecnici tanto le accensioni drammatiche quanto le oasi intimistiche. Il rendimento dell’artista è cresciuto atto dopo atto, entusiasmando nel terzo dopo qualche discontinuità nei primi due. Su di un livello di normale e apprezzabile professionalità si collocano: il Miller del baritono Damiano Salerno, che vorremmo ascoltare in ruoli più lirici e che comunque piace per l’omogeneità di suono e per il legato; il Wurm del basso armeno Arutjun Kotchinian, un bullo fascista rozzo e prepotente dagli accenti incisivi, che andrebbero però levigati secondo le esigenze (omogeneità e legato, appunto) del belcanto italiano; analoga osservazione va fatta per il Walter efficiente e ben caratterizzato del basso moscovita Alexander Vinogradov.
Al Rodolfo del tenore Danilo Formaggia, chiamato a sostituire prima della prevista recita del 23 maggio il più noto collega Giuseppe Sabbatini, vanno riconosciute tutte le attenuanti del caso. Tuttavia va pur detto che l’artista non sempre ha trovato il giusto equilibrio in un’emissione che ha alternato suoni carenti di smalto ad altri forzati nella ricerca di sonorità piene ed incisive. La zona acuta, poi, viene guadagnata sempre con una certa fatica. La sensazione, insomma, è che questo repertorio sia al limite delle attuali possibilità vocali di Formaggia, che farebbe meglio a ripiegare ancora per un po’ su ruoli meno impegnativi. Il tenore ha comunque eseguito con corretta linea di canto l’estatica aria “Quando le sere al placido”, una delle più affascinanti melodie composte da Verdi.
La duchessa Federica del mezzo soprano Ursula Ferri incanta intonando sul fiato e con la dovuta morbidezza di emissione “Dall’aule raggianti di vano splendore”, l’unico passo che una parte molto sacrificata rispetto al dramma di Schiller mette a disposizione di una cantante che voglia mostrare le sue doti. Molto bravi, nei ruoli di fianco, il tenore Luca Favaron, artista del coro della Fenice, e il soprano Elisabetta Martorana. Come sempre a posto il coro diretto da Emanuela Di Pietro.
Adolfo Andrighetti