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Asterisco Informazioni di Fabrizio Stelluto

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Fenice: una Turandot da sogno (o da incubo)

18/12/2007
Che cos’è “Turandot”? E’l’opera del “Vincerò”, si potrebbe rispondere: l’affermazione esplosiva ed eroica ripetuta tre volte da Calaf al termine della sua aria “Nessun dorma” e spesso adattata ad un uso nazional popolare per la sua energia ottimistica, che trascina il pubblico all’entusiasmo fino all’apoteosi dell’acuto finale. Ma, ovviamente, è anche altro: è l’ultima opera di Puccini, in cui il compositore percorse strade inconsuete, abbandonando il realismo delle atmosfere quotidiane che gli era congeniale per affrontare la descrizione di mondi fiabeschi attraverso una grandiosità orchestrale mai tentata prima. Ed è anche l’esito forse più alto, con le sue affascinanti atmosfere da celeste impero misterioso e crudele restituite attraverso un sapiente lavoro sulle armonie e sulla orchestrazione, di quel gusto che aveva attraversato un po’ tutta la storia del melodramma ma aveva lasciato un segno soprattutto in quello del tardo ottocento francese: l’esotismo. Ma “Turandot” è anche l’opera ove ritroviamo, e in piena forma, il Puccini straordinario melodista secondo la migliore tradizione italiana, non solo nel già citato “Nessun dorma”, ma soprattutto là dove compare il personaggio di Liù: come se l’umile ed eroica schiava avesse riportato alla luce la parte più semplice e sentimentale dell’uomo come del musicista.

Si comincia a parlare di Turandot, dunque, e si finisce con Liù. Sì, perché l’opera di Puccini si dipana tutta all’interno della dialettica che contrappone ma anche unisce queste due figure femminili. Che sono l’opposto l’una dell’altra, sul piano sociale come su quello psicologico, e che pure, forse proprio per questo, sono legate fra loro da affinità elettive che alla fine si manifesteranno in tutta la loro forza. Turandot, secondo la fiaba teatrale del veneziano Carlo Gozzi trasformata in libretto da Giuseppe Adami e Renato Simoni, è la “principessa di gelo”, la creatura divina chiusa nella sua dimensione quasi sovrannaturale, dalla quale guarda gli umani con indifferenza e distacco. Della sua bellezza, lunare ed ammaliante, ha fatto un’arma micidiale per punire la parte maschile del mondo. Un uomo, infatti, in epoche remote rapì e uccise la sua antenata Lo-u-ling, l’”ava dolce e serena” della cui tragica sorte Turandot ora si fa vendicatrice implacabile, facendo mozzare la testa a tutti i pretendenti che non sono in grado di rispondere ai tre enigmi che propone loro.

Ma mentre Turandot, dalla sommità del suo trono, volge in basso lo sguardo senza vederla verso la città di Pechino, ai suoi piedi, fra il brulicare della folla, c’è un’altra donna il cui destino si incrocerà presto con quello della principessa: è Liù, non dominatrice come l’altra ma schiava, non trionfante ma sconfitta, perché appartiene al popolo sconfitto dei Tartari e, soprattutto, perché umilmente innamorata senza speranza di Calaf, il Principe Ignoto. Due femminilità, quindi, si contrappongono: quella di Turandot, che occulta il proprio inconfessato bisogno d’amore sotto l’acre soddisfazione che le viene dall’uso capriccioso della violenza e del potere; e quella di Liù, per il suo stato sociale abituata a servire in silenzio e, per la sua sensibilità di donna, capace di amare senza essere ricambiata.

Quando i due personaggi si scontrano, la crudeltà di Turandot ottiene una vittoria apparente sulla dolcezza di Liù, provocandone la morte. Eppure, in quello stesso momento, è la schiava a risultare vincitrice. La principessa, infatti, ancora non lo sa, ma, per uscire dall’orgoglioso isolamento in cui si è serrata, ha bisogno di capire cos’è l’amore, di imparare ad amare. E la sua maestra è Liù, che accetta di morire pur di non tradire il suo Calaf. “Tu che di gel sei cinta, da tanta fiamma vinta l’amerai anche tu” le profetizza la schiava. E così avverrà, non solo perché Calaf è affascinante come tutti i principi delle favole; ma, prima ancora, perché il dono di se stessi per amore sprigiona una forza redentrice e rigeneratrice destinata ad espandersi con effetti imprevedibili: dal sacrificio di Liù, infatti, germina la conversione di Turandot, che, finalmente svelata a se stessa e compartecipe del mistero dell’amore per averlo visto all’opera in tutta la sua forza, potrà unirsi a Calaf.

Se questo è il senso della vicenda, non viene però rispettato dall’autore dello spettacolo in scena alla Fenice, Denis Krief, che sceglie di concludere la rappresentazione là dove la interruppe Toscanini la sera della prima assoluta, il 26 aprile 1926 alla Scala: cioè subito dopo il compianto di Timur sul corpo esanime di Liù. Puccini non poté andare oltre nella composizione, in quanto la morte lo colse prima di aver risolto il problema, che lo angustiò a lungo fra mille incertezze e ripensamenti, di come rendere il duetto conclusivo fra i due protagonisti. Tradizionalmente si ricorre al finale musicato, sulla base degli appunti lasciati da Puccini, da Franco Alfano e poi revisionato da Toscanini. Di recente, poi, si è aggiunta una seconda (o, se si preferisce, una terza) versione per mano di Luciano Berio. Quale sia la più in sintonia con l’universo pucciniano è questione da lasciare ai musicologi. Certo è che, sul piano drammatico, interrompere lo spettacolo con la morte di Liù lascia monca una storia che acquista senso soltanto a partire dalla sua conclusione, in mancanza della quale gli avvenimenti che precedono sono dei nonsense, degli interrogativi senza risposta.

Va riconosciuto, peraltro, che questa scelta è perfettamente coerente con l’impostazione che Krief ha voluto conferire allo spettacolo, in cui la favola della principessa che non sa amare viene riletta in chiave onirica; cioè con quella evidenza sovraesposta tipica dell’incubo, che enfatizza alcuni particolari dilatandoli in maniera grottesca. Di qui uno spettacolo di un’essenzialità ed un nitore surreali, dove, proprio come in un sogno inquietante, il quadro generale è indefinito, perché la scenografia è ridotta a nulla, mentre sono messi in risalto alcuni elementi: il coro dalle casacche colorate che incombe sul palcoscenico, per esempio; le bambole che simboleggiano i pretendenti fatti decapitare da Turandot e fra le quali la principessa, in piena regressione infantile, cerca rifugio dalle pretese amorose di Calaf; la gabbia semovente lignea che contiene Calaf, Timur e Liù; la luna, che nella concezione originale dell’opera simboleggia Turandot, e che qui è rappresentata da un palloncino bianco con cui gioca il Mandarino. Essenziali per la realizzazione di questa concezione registica sono le luci, cangianti di continuo ad assecondare con fedeltà l’alternarsi delle situazioni drammatiche, ma sempre nette, violente, così da definire con esasperata evidenza ciò che accade sul palcoscenico. I tre ministri, poi, con il loro proporsi in abiti e atteggiamenti differenti (ora dignitari imperiali, ora gangsters americani, ora guardie rosse, ora attori d’avanguardia nerovestiti) e con il loro agitarsi che ha un che di meccanico, incarnano la presenza ossessiva e ricorrente di un incubo. E’ ovvio che una concezione di questo tipo, che possiede una sua logica seguita con coerenza e raggiunge esiti teatrali da prendere in considerazione, non può che sacrificare il lato umano dei personaggi, ridotti a fantasmi di un’allucinazione. Solo Liù sfugge al raggio deformante di Krief e rimane una creatura vera, palpitante di sentimenti. Dei costumi, infine, che spaziano dal Celeste Impero alla Cina maoista, c’è poco da dire, perché, nell’economia di questa impostazione registica, sono del tutto ininfluenti.

Qualcosa da dire, invece, rimane sulla parte musicale dello spettacolo. A cominciare dalla prestazione della cinese Zhang Jiemin, la prima donna a concertare e dirigere un melodramma alla Fenice. Una direzione precisa e diligente, la sua, forse anche scolastica, ma che, proprio per questo, dipana la complessa partitura nota dopo nota con pulizia e nitidezza, mettendo a proprio agio orchestra e coro, in gran spolvero entrambi, e i solisti. Una direzione, quindi, che fa capire e si fa capire; anche se, talvolta, qualche tempo un po’ slentato toglie incisività e tensione alla musica.

La compagnia di canto si esprime su di un livello più che apprezzabile, anche nei ruoli di contorno, tutti molto ben curati. Il soprano Giovanna Casolla, storica Turandot, dimostra di avere ancora molte frecce al suo arco e non solo nel canto di forza, imponendosi tuttora come interprete di riferimento del ruolo. Walter Fraccaro, in eccellente forma vocale, è un Calaf brillante e robusto nei suo eroici slanci tenorili, ma capace, se necessario, di sfumare e di cercare accenti più raccolti. La Liù del soprano Maria Luigia Borsi commuove per l’intima dolcezza del canto, al quale però, in alcuni momenti, non guasterebbe un po’ più di volume e di polpa. Il basso Federico Sacchi dà vita ad un Timur eccellente per l’emissione morbida, l’intonazione precisa, la cura attenta del fraseggio. Il trio dei ministri Ping, Pong e Pang è affiatato e ben disposto all’interpretazione scenica. Sul piano vocale, senza nulla togliere al professionismo del tenore tedesco Matthias Wohlbrecht e dell’italiano Gianluca Floris, indisposto ma ugualmente presente sulla scena, l’ensemble si regge sulle spalle robuste del ventisettenne Giorgio Caoduro, baritono timbrato, sicuro, una bella promessa per il futuro e già una certezza per il presente. Molto positivo anche il contributo del baritono tedesco Timothy Sharp come Mandarino e del tenore Enrico Cossutta come Imperatore Altoum. Ben istruito e intonato il coro di voci bianche dei Piccoli Cantori Veneziani diretto da Mara Bortolato.

Alla recita domenicale cui si riferiscono queste note, vivo successo per tutti.

Adolfo Andrighetti

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