Pieno di brio il volo de “La Rondine” di Puccini alla Fenice
Ancora nel 1969 Franco Abbiati, nella sua “Storia della musica”, a proposito de “La rondine” parlava di “invenzione deboluccia”, di “venatura melodica fin troppo facile e leggera”, dando atto solo degli “agili, piacevoli rabeschi dello strumentale”. Ora, che il pregio della partitura non stia nelle aperture melodiche, che pure sbocciano con grazia e singolare spontaneità dal variopinto tessuto orchestrale, è vero. Come è vero ciò che l’illustre musicologo affermava circa i “rabeschi dello strumentale”. Solo che, registrandone la piacevolezza, nello stesso tempo dimostrava di averne una concezione riduttiva. Ad un ascolto senza pregiudizi, invece, quei “rabeschi” si rivelano per essere molto di più che un abile e grazioso elemento esornativo. Formano, invece, un tessuto orchestrale prezioso e seducente, cangiante di continuo in maniera raffinata come certe sete marezzate che mutano colore al variare dell’esposizione luminosa; una trama sonora lavorata con magistrale abilità tecnica e gusto infallibile da Puccini, ancora una volta capace di impadronirsi del linguaggio musicale contemporaneo, per esempio nell’uso di ballabili come il tango e il fox trot oltre ai tradizionali valzer e polka, senza per questo rinunciare alla sua inconfondibile propensione melodica.
Per i primi due atti, quindi, si può condividere il giudizio di Victor De Sabata, che diresse l’opera a Montecarlo nel 1919 due anni dopo il debutto e la definì “...la più elegante, la più raffinata partitura di Puccini”: valutazione forse esagerata a causa del superlativo assoluto ma azzeccata nella sostanza. L’invenzione, invece, sembra farsi veramente deboluccia, per dirla con Franco Abbiati, nel terzo atto, ove Puccini non si adegua con la necessaria reattività al cambio di atmosfera che vi si registra rispetto ai primi due. Questi, infatti, sono caratterizzati dalla effervescente mondanità parigina dei salotti e dei locali alla moda del secondo Ottocento, ove vede la luce l’impossibile storia d’amore fra Magda, la rondine del titolo, mantenuta del ricco signore Rambaldo, e il giovane e sprovveduto provinciale Ruggero. Il terzo atto, invece, ambientato nel clima sereno ed ovattato di un buen retiro vicino a Nizza, ove i due amanti si sono rifugiati per sfuggire alle tentazioni di Parigi, è quello in cui si rende evidente che la relazione fra una mondana di lusso ed un giovane di buona famiglia non può avere futuro. Per cui Magda rinuncia al sogno di un amore sincero lasciando libero Ruggero di trovarsi una fidanzata “onesta”.
Ebbene, va riconosciuto che questo terzo atto risulta stiracchiato, grigio, povero d’inventiva, come fosse stato portato a termine senza convinzione e per obbligo contrattuale. Puccini sembra qui privo della creatività necessaria per trovare la quadratura di un atto che conclude una commedia lirica (tale è la definizione ufficiale de “La rondine”) senza donarle il lieto fine. Il musicista aveva certamente nelle sue corde quella tinta melanconica, crepuscolare, che sarebbe stata adatta ad un addio certo sofferto ma alla fine molto borghese, dovuto a ragioni di opportunità cui non sono estranee le difficoltà economiche, e privo della esasperata passionalità romantica. Ma questa volta l’ispirazione non lo sostiene e, fra una commedia senza lieto fine ed una tragedia che implode anziché esplodere, non riesce a trovare la via mediana. Puccini era il primo ad esserne consapevole, dal momento che, dopo la prima italiana di Bologna, predispose altre due versioni dell’opera, nelle quali fu proprio il terzo atto a subire i cambiamenti più profondi.
La rappresentazione della Fenice, poi, ha dimostrato che, se “La rondine” ha un limite, questo è di natura teatrale piuttosto che musicale. Un limite che si è evidenziato nonostante la messa in scena fresca e vivace, ambientata intorno alla metà del secolo scorso, studiata dal regista Graham Vick, che lavora bene sui personaggi e sulle masse e li fa muovere in piena sintonia con la pulita e divertente cornice scenografica ideata da Peter J. Davison. Importante e apprezzato anche il contributo dei simpatici costumi di Sue Willmington, della frizzante coreografia di Ron Howell e delle luci appropriate di Peter Kaczorowski. Tuttavia, nonostante la felice realizzazione teatrale, primo e terzo atto reggono a fatica alla prova del palcoscenico, dimostrando la labilità di una concezione drammatica che nessun regista sarebbe in grado di irrobustire, a meno di non forzare l’elegante ma esile struttura dell’opera. Solo il secondo atto possiede una solida consistenza teatrale e infatti alla Fenice è quello che permette al team inglese responsabile dell’allestimento di raggiungere un risultato eccellente, con una allegra balera all’aperto ove, fra scooter, biciclette ed il bar che si apre all’interno di una camioncino, la giovinezza celebra i suoi riti spensierati e rumorosi.
Sul podio Carlo Rizzi si disimpegna con bravura, efficienza ed energia, ma le molte preziosità della partitura avrebbero richiesto la ricerca di un più accurato equilibrio tra i diversi piani sonori.
Alla recita domenicale cui si riferiscono queste note, nel ruolo della protagonista doveva cantare Fiorenza Cedolins. Il soprano friulano, invece, oggi uno dei primi al mondo nel suo repertorio, ha dato forfait all’ultimo momento, deludendo probabilmente molti appassionati accorsi alla Fenice per applaudirla e sicuramente il sottoscritto, che ha affrontato il caos dell’ultima domenica di Carnevale a Venezia soltanto per poter ascoltare per la prima volta dal vivo la famosa cantante. La sua sostituta, Maria Luigia Borsi, che si è alternata alla Cedolins nel corso delle varie rappresentazioni, non ha demeritato né incantato. La sua Magda è poco convincente nelle frivolezze del primo atto, mentre prende quota quando il versante sentimentale prevale su quello civettuolo. Accanto a lei Fernando Portari è un Ruggero vocalmente apprezzabile, anche perché la tessitura della parte, che è abbastanza centrale, lo aiuta. L’emissione, tuttavia, potrebbe essere più controllata e curata soprattutto in zona acuta. La coppia brillante composta dal poeta Prunier e dalla cameriera Lisette, rispettivamente il tenore Emanuele Giannino ed il soprano spagnolo Sandra Pastrana, si fa apprezzare per la presenza disinvolta e brillante sulla scena. Semplicemente perfetto, per l’aplomb vocale e teatrale, il Rambaldo del baritono Stefano Antonucci. Molto ben curate tutte le numerose parti di contorno. Ottimo, come sempre, il contributo del coro della Fenice, diretto da Emanuela Di Pietro. Pieni di calore gli applausi conclusivi.
Adolfo Andrighetti