Elettra alla Fenice: horror precristiano privo di redenzione
Lo spettacolo asciutto, crudo, scarnificato e per ciò tanto più incisivo visto alla Fenice (Premio Abbiati 2004), ha esaltato la grandiosità barbarica della creatura di Strauss e Hofmannsthal più sottraendo che enfatizzando. La scena unica, di Anselm Kiefer, autore anche degli ottimi costumi, rappresenta la corte interna di un edificio a più piani, tutti praticabili, sui quali si distribuiscono i personaggi. A Elettra è riservato il più basso, a contatto con la terra, la paglia e lo sterco, che morde e stringe covando la sua vendetta; realtà elementari, come elementare è l’odio che nutre verso la madre adultera ed assassina. La reggia è grigia, pietrosa, totalmente spoglia. Racchiude e spira la semplicità inesorabile della tragedia, che rappresenta con tanta maggiore fedeltà le pulsioni primordiali dell’animo umano quanto più è ridotta all’essenziale, privata di ogni orpello ed offerta nella sua livida eppure luminosa nudità. Che è la nudità dell’uomo posto davanti alla realtà del proprio io, in cui si specchia disperato perché privo della possibilità di una redenzione, qualunque essa sia.
All’interno di questa cornice povera ed evocativa si muovono i personaggi, accuditi con spiccato senso del teatro e profonda comprensione del valore della tragedia dal regista Klaus Michael Gruber. A cominciare dalla terribile Elettra, creazione monumentale e indimenticabile: belva ferita eppure progenie di re, grandiosa protagonista di una tragedia antica come il mondo eppure capace di sorprendenti attimi di ironia, consapevole della propria nobiltà di donna e principessa perseguitata dalla sorte ma anche maschera grottesca che ha sacrificato il pudore, come confessa ella stessa al fratello Oreste. Ed è ammirevole come la genialità di Gruber, senza alcuna forzatura del testo ed anzi limitandosi a coglierne i suggerimenti, abbia saputo combinare emozioni e sentimenti così diversi all’interno dello stesso personaggio, la cui unità sostanziale non è compromessa ma arricchita dall’alternarsi di un così variegato caleidoscopio caratteriale.
Accanto a lei si colloca con pari potenza la madre Clitennestra: impressionante simbolo di un potere in sfacelo, tragica marionetta sconvolta dagli incubi notturni che cerca di esorcizzare con pratiche superstiziose eppure disposta ad ogni ferocia pur di restare ritta sul suo piedistallo ad amministrare quei lacerti di regalità che ancora le restano. Con fulminante intuizione il regista la fa uscire da un mantello-corazza di pietra, sorta di sarcofago in cui la regina si chiude come ultima, illusoria protezione dalle sue angosce.
Al fianco di due personaggi di una tale perentorietà drammatica risalta ancora di più la fragile Crisotemide, della quale il regista si limita a rappresentare ciò che raccontano i versi di Hofmannsthal. In scena si vede, dunque, una creatura di liliale semplicità, desiderosa di vivere secondo ciò che l’istinto di donna le suggerisce, caratterizzata dagli atteggiamenti di una femminilità spiccata e pronta ad esprimersi.
Le interpreti dei tre ruoli principali sono pienamente all’altezza di una concezione registica così forte ed impegnativa. Gabriele Schnaut fa della sua Elettra una creazione artistica di alto livello e di impressionante impatto drammatico, nonostante una gestualità a tratti fin troppo esibita. La vocalità, di notevole potenza ed incisività, è completamente al servizio del personaggio, anche quando, secondo costume teutonico, l’emissione potrebbe essere più levigata e certi suoni, in zona acuta, suonano fin troppo aspri e gridati. Mette Ejsing è una Clitennestra altrettanto convincente, con il suo vacillare ad ogni passo nel rappresentare uno sfacelo morale prima che fisico, eppure con una malvagità che è sempre pronta a ridestarsi e ad aggrapparsi alla vita, come quando le giunge la notizia, peraltro falsa, che Oreste, suo figlio, è morto e con lui il rischio che Agamennone possa essere vendicato. La vocalità dell’interprete, poi, è sicura ed efficace, pienamente adatta al ruolo. Splendida, infine, la resa scenica e vocale di Elena Nebera, una Crisotemide dalla presenza dolce ed aggraziata e dal canto limpido ed incisivo.
Accanto a queste tre scultoree figure femminili risulta scialbo l’Oreste di Peter Edelmann, pallida incarnazione dell’eroe che torna a vendicare i torti e a ristabilire la giustizia. Efficacemente caratterizzato, invece, l’Egisto di Kurt Azesberger. Ben interpretati anche tutti i ruoli di fianco, troppo numerosi per poter essere ricordati uno per uno. Citeremo almeno il precettore di Oreste, e suo fiancheggiatore nella vendetta, di Duccio Dal Monte; le due assistenti-vittime di Crisotemide, e cioè la confidente di Liesl Odenweller e l’ancella dello strascico di Gundula Hintz; la sorvegliante di Alexandra Wilson; il vecchio servo di Vito Maria Brunetti e il giovane servo, interpretato da Iorio Zennaro con la consueta brillantezza e correttezza.
Last but not least, come dicono gli inglesi, il maestro Eliahu Inbal, eccellente concertatore prima ancora che direttore di un universo sonoro così complesso sul piano tecnico ed interpretativo. Il direttore musicale della Fenice, per la prima volta sul podio di un’opera nel massimo teatro veneziano, ha infatti dato prova di un equilibrio e di un rigore formale ammirevoli, dando respiro e risalto ai brevi momenti lirici sparsi qua e là, ma anche restituendo con assoluta intensità, ben coadiuvato dalla attenta orchestra, la concitazione, il livore, anche la ferocia di una partitura che nulla concede ai buoni sentimenti, compresi quelli di natura estetica. Bene anche il coro della Fenice, per la prima volta diretto da Alfonso Caiani.
Alla rappresentazione domenicale cui si riferiscono queste note, successo vibrante e convinto, con note di particolare entusiasmo per Inbal, Elettra e Crisotemide.
Adolfo Andrighetti