Giuseppe Di Stefano, sole di Sicilia
Perché Giuseppe Di Stefano, il tenore catanese nato nel 1921 e scomparso nei giorni scorsi, era così: un simpatico guascone appassionato della vita più che dell’arte, o dell’arte nella misura in cui poteva affrontarla con la stessa allegra spensieratezza con cui si abbandonava alla vita. Una vita che all’inizio non era stata facile per lui, figlio di un carabiniere e di una sarta trasferitisi dalla Sicilia a Milano quando Pippo (per lui quasi un nome di battaglia) aveva sei anni e poi giovanotto nel pieno della seconda guerra mondiale; ma fulmineamente affermatosi già in quel dopoguerra così incerto eppure così ricco di opportunità insperate e nel 1947 addirittura alla Scala come Des Grieux nella “Manon” di Massenet, nel 1948 al Metropolitan di New York come Duca di Mantova nel “Rigoletto” di Verdi.
E da lì un rincorrersi di successi in tutti i teatri del mondo e, contemporaneamente, un rincorrere la vita, che ora si offriva sapida e generosa al giovanotto di Motta Sant’Anastasia. Pippo ne godeva allegramente, la assaporava in fretta a morsi golosi, con un’esuberanza incantevole che non trascurava nulla di ciò che fama e ricchezza potevano offrirgli, dalle ville alle belle donne, dalle automobili alle case da gioco. E il fumo, naturalmente. Perchè cantare è bello, ma vivere ancora di più. Vennero, naturalmente, tempi più tristi: il tesoro della voce, elargito con quella gioiosa e prodiga spensieratezza che era il tratto distintivo della sua personalità, cominciò ad esaurirsi dopo una quindicina d’anni di carriera e anche a lui fu costretto ad imboccare il “viale del tramonto”. Nel 1975 morì di leucemia l’amatissima figlia Luisa. Quindi il declino, la vecchiaia; la tragica aggressione, dalla quale non si era mai ripreso completamente, subita nel 2004 nella sua villa in Kenya; infine la morte, nella sua casa di Santa Maria Hoè in Brianza, accudito amorevolmente dall’ultima moglie, il soprano tedesco Monika Kurth, prima sua allieva e poi sua compagna di vita.
I quotidiani hanno dato molto risalto alla scomparsa di Pippo. Mi fa piacere, anche perché, per gli appassionati, certi cantanti sono come dei parenti prossimi, con i quali, a furia di ascoltarli nei dischi e, se si è fortunati, anche dal vivo, si giunge a creare un rapporto di confidenza, quasi di complicità. Di Stefano è sicuramente fra questi. A me è particolarmente caro perché lo associo alla memoria di mio padre, che lo amava molto per quel suo fraseggio suadente e appassionato insieme, la dizione chiarissima, lo splendore del timbro. Mi ha fatto quindi piacere leggere gli ampi articoli, i titoli a tutta pagina, a lui dedicati: un omaggio al cantante, certo, ma anche all’arte del melodramma, che Di Stefano servì con le sue doti eccezionali ed anche con i suoi limiti, questi ultimi attribuibili all’uomo più che all’interprete, a onor del vero. Bene, allora, quel titolo “Il tenore moschettiere”: rende l’idea, sintetizza efficacemente il suo modo di essere sempre all’attacco, senza risparmiarsi, sul palcoscenico come nella vita. Molto meno bene “Addio a Giuseppe Di Stefano: il tenore che voleva farsi prete”. Che c’entra? Pippo, come tanti figli del popolo, fu educato in seminario e meditò anche di vestire l’abito. Niente di male, anzi, ma cosa questa passeggera aspirazione giovanile toglie o aggiunge alla sua storia di protagonista indiscusso del teatro musicale del secolo scorso? Mi ha deluso anche “Addio al tenore Di Stefano, il preferito di Maria Callas”, ove si cerca di mettere in risalto, un po’ ingenuamente, la figura artistica del tenore collegandola con il mitico soprano, che fu effettivamente sua grande amica e sua compagna in innumerevoli esibizioni.
Ma, ecco il punto, Pippo non ha bisogno di appoggiarsi a nessuno, anche se grande, per essere ciò che è. E ciò che è lo dimostrano soprattutto quelle incredibili incisioni realizzate per la radio svizzera, ove, in piena guerra mondiale e poco più che ventenne, si presenta con una delle più ammalianti e tecnicamente complete voci di tenore lirico-leggero che la storia della registrazione possa testimoniare. Insomma, questo giovanotto, che poteva contare su di una preparazione musicale e vocale di certo approssimativa e che, anche più tardi, all’apice della carriera, fu sempre considerato e non a torto un interprete che si affidava all’istinto più che allo studio, a vent’anni sapeva già tutto, eseguiva tutto perfettamente, cantava come un arcangelo. Il timbro bellissimo, preziosamente smaltato e insieme caldo del sole di Sicilia, come illuminato dall’interno, era sorretto da una tecnica vocale pienamente padroneggiata, in grado di alleggerire gradualmente le cascate iridescenti di suono in smorzature e filati impeccabili; e, viceversa, di amplificare con facilità le note attaccate piano in lame sonore lucenti di mille riverberi luminosi. Il canto a fior di labbro, poi, non era mai esangue, stiracchiato, ingolato, ma sempre pieno e sonoro, seppure dolcissimo.
Insomma, nei primi anni di carriera, quel giovanotto siciliano che si affacciava alla vita era un tenore da far accapponare la pelle. Poi, col passare degli anni, lo strumento delicatissimo prese a deteriorarsi, a causa di un repertorio troppo oneroso che abbracciava pericolosamente anche ruoli spinti o addirittura drammatici e di uno stile di vita spensierato. Quindi la voce perse duttilità, si irrigidì, i suoni in zona acuta diventarono aperti e forzati, si schiacciarono. Rimase, secondo la definizione del critico Rodolfo Celletti, la bellezza luciferina del timbro, che sembrava aver rubato lo splendore e la dolcezza della luce della terra siciliana; lo slancio giovanile del fraseggio, sempre trascinante, appassionato, comunicativo; la dizione chiara ed espressiva; la nettezza dell’emissione.
Mentre concludo queste note, mi pare che qualcuno mi fissi dall’alto, da un altrove remoto ma anche molto vicino, con due occhi neri e brillanti come carboni accesi ed una voce ironica mi dica, con quel timbro che sentito una volta non si dimentica più: “Figlio mio, quante storie per un fumatore che si divertiva a cantare...”.
Adolfo Andrighetti
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