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Asterisco Informazioni di Fabrizio Stelluto

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Largo al factotum: e alla Fenice è subito festa

22/04/2008
Qualche accigliato Beckmesser, di quelli che vanno a teatro per annoiarsi e sono afflitti da gastrite cronica, potrebbe chiedersi il perché di un altro, dell’ennesimo Barbiere di Siviglia di Rossini, in assenza di una idea registica veramente innovativa o di un’interpretazione musicale rivelatrice, ammesso che entrambe siano ancora possibili per un capolavoro voltato e rivoltato dalla prassi teatrale come dalle ricerche musicologiche.

Si potrebbe rispondere che, a giustificare la messa in scena del Barbiere in questi giorni alla Fenice, potrebbe anche bastare il magistrale Bartolo di Bruno De Simone, un capo d’opera da spellarsi le mani. Eppure anche questa non sarebbe la risposta giusta. Il vero motivo, infatti, per il quale vale sempre la pena di riproporre il Barbiere di Rossini è la gioia del pubblico; l’entusiasmo con cui continua a reagire, in questo 2008 così radicalmente distante per gusti culturali e stili di vita dal 1816 delle origini, a quella comicità irresistibile le cui componenti sono state poste sotto lo sguardo di tutti come farfalle infilzate in una teca, ma il cui risultato complessivo risulta sempre “altro” rispetto alla somma dei vari ingredienti. Che sono, com’è noto, l’uso del ritmo come irresistibile starter comico, l’effetto burlesco dei suoni che si rincorrono l’uno con l’altro e si rispondono a vicenda in un’eco grottesca, l’abilissima strumentazione, la capacità di piegare le forme classiche dell’opera buffa ad una creatività superiore e anche dissacrante, la stessa geniale commedia di Beuamarchais ridotta per la musica da Cesare Sterbini con spiccato senso teatrale.

E ancora molto altro si potrebbe aggiungere, per esempio sulla vocalità, oppure sul concetto di disordine calcolato (o caos organizzato), così importante soprattutto nello strepitoso finale del primo atto. E tuttavia qualcosa ancora sfuggirebbe, il senso vero e vitale della dimensione comica del Barbiere si sottrarrebbe alla presa come una pallina di mercurio, perché alla ricetta, per usare una metafora che al Rossini gourmet forse non sarebbe dispiaciuta, è stato aggiunto un ingrediente sconosciuto, un lampo di genio, uno stato di grazia, una benedizione divina: qualcosa che ha affrancato il Barbiere dalle pesantezze di questa terra per permettergli di librare leggero nell’empireo del comico assoluto.

Il miracolo si sta puntualmente ripetendo in questi giorni alla Fenice, grazie ad uno spettacolo che, se non sorprende per la novità delle proposte, tuttavia non frappone ostacoli al libero espandersi della marea comica rossiniana, che può montare senza freni fino a tutto travolgere. L’allestimento, già visto con qualche differenza al Malibran quattro anni fa, in effetti non sorprende con effetti speciali, non tenta quei cambiamenti d’epoca oggi così di moda, ma rimane nell’alveo di una rassicurante routine di elevata professionalità, che racconta la vicenda con brio e con convinta adesione alla comicità un po’ ingenua e farsesca della commedia dell’arte. Su questa linea, quindi, le gags si moltiplicano e, nella quantità, alcune non sembrano cogliere nel segno, come quelle assegnate al coro oppure il fin troppo insistito gioco di paraventi. Si avverte, invece, la mano felice del regista Bepi Morassi, veneziano e direttore della produzione alla Fenice, nella attenta caratterizzazione dei singoli personaggi. Gradevoli e funzionali, anche se un po’ oleografiche, le scene di Lauro Crisman e secondo il cliché consueto i bei costumi, dovuti allo stesso Crisman. Light designer è Vilmo Furian.

Sul podio agisce il trentaduenne maestro messinese Antonino Fogliani, che sembra riavvicinare il Barbiere all’ambito neoclassico con sonorità calibrate e la cura sapiente dei momenti lirici. L’enfasi viene, quindi, tenuta ben lontana da una dinamica che guarda a Cimarosa piuttosto che al nascente romanticismo, mentre i momenti ipercinetici della partitura sono assecondati con l’energia necessaria.

Sul palcoscenico si presenta un cast di alto livello, fra i migliori che si possano ascoltare in Italia nel Barbiere rossiniano, anche se non sempre sintonizzato sulle intenzioni del direttore e concertatore. Lo è di certo il giovane mezzosoprano israeliano Rinat Shaham, una Rosina aggraziata e che sa stare in scena, musicale e dalla corretta linea di canto. Dà il meglio di sé nella scena della lezione, ove si dimostra a suo agio fra le colorature del rondò dell’Inutil precauzione, cui conferisce suono rotondo e ben timbrato. Altrove, invece, ove si richiederebbe un fraseggio più incisivo e mordente ad esprimere l’indole viperina della ragazza, come nel corso della celebre cavatina “Una voce poco fa”, il fraseggio risulta ancora un po’ inerte e le sonorità insufficienti.

Roberto Frontali non è propriamente quel baritono acuto e brillante che potrebbe servire al meglio il ruolo di Figaro. Il suo è un barbiere di grande professionalità ed efficienza, vocalmente robusto e possente, cui non guasterebbe di tanto in tanto la ricerca di qualche sfumatura in più soprattutto nella ricostruzione della componente ironica del personaggio. Il Conte d’Almaviva del tenore Francesco Meli, grazie all’esuberanza dell’interprete che dimostra tanta voglia di cantare e divertirsi sulla scena, si presenta spavaldo e un po’ guappo, come si addice a questo giovanotto abituato a prendere ciò che vuole grazie al censo ed al blasone, concedendosi nel frattempo qualche diversivo di sapore goliardico. Il cantante, poi, è più che dotato: la voce ora scintilla argentina, ora scoppia come un petardo, se necessario sa accarezzare con soavità. Pazienza se talvolta una certa euforia da mattatore gli prende la mano e lo spinge ad allentare le briglie nel controllo dell’emissione, per cui qualche nota non è proprio immacolata. Il personaggio, in effetti, viene fuori a tutto tondo anche sul piano vocale e risalta soprattutto nelle agilità di forza, eseguite con la spavalderia e l’entusiasmo che si addicono ad un giovanotto nobile, ricco e innamorato, cui la vita si offre ricca di seduzioni a portata di mano. Piuttosto c’è da chiedersi per quanto tempo ancora Francesco Meli potrà permettersi questo repertorio, in quanto è evidente che natura e temperamento lo stanno sospingendo verso ruoli ove è richiesta una vocalità più accesa e robusta.

Del Bartolo di Bruno de Simone, una creazione artistica di livello assoluto, si è già accennato. Il baritono, Premio Rossini 2007, non butta via una nota, una parola, un gesto, ma tutto valorizza con classe inimitabile per delineare un personaggio in apparenza inoffensivo, smidollato e flaccido, in realtà sottilmente pericoloso, animato da una sotterranea corrente di malvagità. Indimenticabile la sua controscena nella lezione di canto: nel guardare lui, ci si dimenticava delle agilità di Rosina...Bene anche il Basilio del basso Giovanni Furlanetto, adeguato e corretto sul piano vocale, oltre che solenne, ieratico e intimamente cialtrone come certi guru acchiappacitrulli. La Berta del soprano Giovanna Donadini domina la scena con la simpatia corposa ed autoironica di certi personaggi femminili goldoniani, cui basta un gesto ammiccante per guadagnarsi la complicità del pubblico. Inoltre l’esuberante caratterizzazione del personaggio è perfettamente assecondata da una vocalità ben impostata e robusta. Apprezzabili anche il Fiorello del trentenne basso-baritono Luca Dall’Amico, cui manca soltanto, per mettere in risalto tutte le sue doti, un’emissione meno ingolata e più proiettata, e l’Ufficiale del basso Claudio Zancopè, artista del coro della Fenice. Positivo il contributo del coro diretto da Alfonso Caiani e di Stefano Gibellato al fortepiano.

Alla fine, successo con punte di entusiasmo per tutti.

Adolfo Andrighetti

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