Tosca alla Fenice: storia di un’etoile sfortunata
Credo che ogni appassionato abbia opere da custodire nell’harem delle favorite e altre da collocare nella categoria delle belle ma estranee. Per quanto mi riguarda, tralasciando alcuni capolavori indiscutibili, confesso una forte inclinazione per il Verdi barbarico, ruvido ma affascinante, dell’Attila e del Macbeth, e per le cupe atmosfere, appena alleggerite dal profumo del mare, del Simon Boccanegra. Oppure per la comicità assurda, da cartone animato, dell’Italiana in Algeri di Rossini. Sull’altro versante, invece, insieme ad alcune altre, anche la “Tosca” di Puccini, in questi giorni alla Fenice: di cui ammiro la ricca strumentazione, l’abile uso dei leitmotiv in chiave drammatica e le gemme melodiche, ma che mi rimane, appunto, estranea, distante.
E’ difficile motivare un sentimento, come quello dell’antipatia, che è squisitamente irrazionale e di cui il nostro io più saggio e consapevole in fondo si vergogna. Nel caso di “Tosca”, tuttavia, è indubbio che una buona parte del mio contraggenio nasce dalla vicenda, ove i tratti grandguignoleschi prevalgono su quelli più raffinati ed allusivi, che sono i più confacenti alla finzione teatrale, anche quella del teatro in musica. Ad esempio, non giova alla realizzazione drammatica del personaggio di Scarpia, uno dei più bei caratteri (come si sarebbe espresso Verdi) di tutto il melodramma con il suo perverso mix di bon ton papalino, sadismo e lussuria, il tentato stupro in palcoscenico ai danni di Tosca: il suo mistero interiore, così oscuro e contorto, ne esce banalizzato. Ma tutto in quest’opera viene esibito in maniera invereconda con un effetto che dal kitsch scorre al grottesco e poi vi ritorna: le torture a Cavaradossi, che prima urla di dolore e poi, ancora insanguinato, scaglia acuti dal proscenio; l’omicidio di Scarpia, con Tosca che gli apparecchia una sorta di camera ardente; ancora, la fucilazione di Cavaradossi, che si finge finta e invece è reale, e il suicidio finale di Tosca, che si butta giù da Castel Sant’Angelo. Del resto è noto che, quando “Tosca” vide la luce al Teatro Costanzi di Roma il 14 gennaio 1900, le perplessità di una parte della critica furono dovute all’eccessivo insistere della vicenda rappresentata su effetti ed effettacci fin troppo veristici se non addirittura truci.
Ora, sarebbe spingersi troppo oltre affermare che la “Tosca” in questi giorni alla Fenice mi ha riconciliato con gli aspetti più esteriori e vociferanti dell’opera. Però mi ha almeno regalato un paio d’ore di canto bello, sano, affascinante. Il merito principale va a ascritto ai due protagonisti, Daniela Dessì e Fabio Armiliato, ai quali il fatto di essere coppia nella vita ha conferito l’affiatamento e gli stimoli necessari per esserlo al più alto livello artistico anche sul palcoscenico. Daniela Dessì, nella Tosca veneziana, ha messo il proprio strumento privilegiato, dal bellissimo impasto lirico e dalle preziose screziature, al servizio di un temperamento d’artista vibrante, capace di conferire colore ed anima ad ogni frase. Il personaggio voluto dal regista Robert Carsen, poi, le calza a pennello: è una Tosca diva, enfatica nel gestire, sempre al proscenio alla ricerca del contatto col pubblico, iluminata dall’occhio di bue nei momenti topici. Il soprano si cala fino in fondo in questi panni vistosi, riuscendo ugualmente ad essere vera, a farci capire che l’essenza della donna Floria Tosca sta proprio in questo modo teatrale, esibito, di vivere i propri sentimenti, che non per questo sono meno sinceri. L’artista ha saputo anche variare con grande sensibilità i propri registri interpretativi, alternando i momenti di passionale estroversione con altri di remissiva femminilità, di seducente abbandono, come nel “Vissi d’arte”.
Le è accanto l’emozionante Cavaradossi del tenore Fabio Armiliato, oggi il numero uno nel repertorio italiano a cavallo fra ottocento e novecento. Sembra che la divinità del canto lo stia assistendo con particolare affetto, per cui gli riesce tutto con invidiabile facilità, nonostante gli impegnativi tempi lenti imposti dal direttore d’orchestra. Squilla sicuro quando c’è da squillare, usa bene la mezza voce quando c’è da usarla (vedi la prima parte di “E lucean le stelle” e “O dolci mani”), ha emissione pulita, dizione nitida, intonazione eccellente; sa cantare sul fiato e non forza mai. Ha un fraseggio fresco, giovanile, giustamente baldanzoso ed appassionato. Che volere di più? Ma certo, il fisico del ruolo da martire affascinante perseguitato dalla sorte. Ebbene, ecco servito anche quello: Armiliato “è” Cavaradossi sia per il canto limpido e disteso, che riecheggia, come è stato giustamente osservato, modi espressivi alla Gigli, sia per la presenza scenica da eroe foscoliano.
Vicino a due cantanti-attori di questo calibro, riesce a dire la sua anche lo Scarpia di Carlo Guelfi, ad onta di uno strumento che, col tempo, sta smarrendo qualità timbrica, suona carente di polpa e rotondità, scivola talvolta in sonorità nasaleggianti. Eppure il suo è uno Scarpia di gran classe. Lo aiuta la presenza imponente, con cui grandeggia sugli interlocutori. Ma da sola non basterebbe se non fosse arricchita da una serie di movimenti accennati, di sottolineature gestuali, di tanti piccoli particolari interpretativi, che creano il personaggio. E, ancora, l’aspetto teatrale, per quanto importante, non sarebbe sufficiente se non fosse vivificato da un fraseggio incisivo, costruito sempre con perizia, sensibilità ed intelligenza.
Per parlare anche degli altri, è sembrato particolarmente riuscito, per la caratterizzazione misurata eppure gustosa, il Sagrestano del baritono Roberto Abbondanza. Preciso l’Angelotti del basso Alessandro Spina. Come sempre positivo e corretto l’apporto di due artisti di casa sul palcoscenico della Fenice: il tenore Iorio Zennaro (Spoletta) e il basso Franco Boscolo (Sciarrone).
Il maestro Daniele Callegari ha offerto una direzione ed una concertazione molto personali, discutibili ma non privi di fascino. Ha voluto tempi larghi, distesi, che non sempre hanno agevolato i cantanti ma hanno presentato alcuni momenti della partitura sotto una luce diversa, permettendo di apprezzare come nuovi impasti sonori e soluzioni timbriche altrimenti risaputi. Callegari ha anche pigiato con forza sulle dinamiche, sottolineando i momenti più drammatici dell’opera ma non restituendo il fascino di altri, come l’alba romana, che richiederebbero sonorità più sospese, quasi diafane.
Lo spettacolo del canadese Robert Carsen, ben noto alla Fenice per la regia della Traviata inaugurale del teatro ricostruito nonché dei wagneriani Walkiria e Siegfried, appartiene ai primi anni di attività dell’artista e quindi non ha ancora maturato quel sapiente approfondimento del carattere dei personaggi che ne caratterizzerà le produzioni successive. Anche in questo caso, tuttavia, Carsen non si accontenta di raccontare la storia, ma ne coglie e valorizza un aspetto singolare, quello della teatralità. Lo incontriamo soprattutto nella protagonista, che è una cantante acclamata e che non sembra saper rinunciare a pose e a atteggiamenti che potremmo definire da palcoscenico. Ma lo ritroviamo anche nel corso dell’intera vicenda, ove abbondano gli effetti spettacolari e plateali. La stessa fucilazione di Cavaradossi, del resto, è un singolare esempio di teatralità alla rovescia, in quanto la finzione promessa da Scarpia a Tosca si rivelerà, invece, tragicamente vera. Carsen, quindi, lavora su questo spunto, non solo presentandoci, come si è detto, una Tosca diva anche nella sofferenza, ma ambientando l’opera all’interno di un teatro (scene di Anthony Ward, responsabile anche dei funzionali costumi oscillanti fra ottocento e novecento), ricostruito secondo un criterio di severa, spoglia essenzialità.
Alla recita cui ho assistito, successo caloroso per tutti, entusiastico per la coppia Dessì-Armiliato.
Adolfo Andrighetti
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