Inseguendo Eros fra le calli di Venezia
L’incontro, quindi, doveva avvenire, il legame sotterraneo fra i due mondi artistici doveva essere portato alla luce e trovare forma, al punto che Britten conclude la propria vita con “Death in Venice” così come Aschenbach muore alla fine del romanzo; quasi che entrambi fossero giunti ad un punto di non ritorno esistenziale dopo aver vissuto, il primo intrecciando di continuo il livello esistenziale con quello artistico, il secondo come personaggio da romanzo in cui però Mann proietta le proprie pulsioni inconfessate, una passione assoluta, totalizzante, oltre la quale ci può essere solo la morte.
Il problema, come ammette Aschenbach mentre si abbandona consapevolmente alla perdizione, è che l’artista è condannato a non poter servire la bellezza senza essere coinvolto dall’Eros. Senza, cioè, essere travolto da Dioniso, il dio dell’istinto e della vertigine, che appare allo scrittore nel sogno di un baccanale insieme repellente ed affascinante. Chi serve la bellezza, quindi, invano si illuderà di conservarne una visione ordinata, armonicamente classica. Invano cercherà di contemplarla con uno sguardo distaccato, filosofico, per controllarne la componente irrazionale. Prima o poi la follia irresistibile di Dioniso travolgerà l’olimpica compostezza di Apollo, suscitando quella “tendenza incorreggibile ed ovvia per la voragine” ben nota anche a Britten e da lui descritta musicalmente non solo in “Death in Venice”, ma anche in altre opere come “The turn of the screw”, “Billy Budd” e “Peter Grimes”.
La sera in cui mi sono recato alla Fenice per assistere a “Death in Venice” la città respirava a stento sotto una coltre di afa pesante ed appiccicaticcia; sembrava una di quelle serate in cui Aschenbach, affranto e delirante, inseguiva Tadzio per calli e campielli, sperando in cuor suo, mentre il belletto gli si sfaceva sul volto, che l’epidemia di colera covata dallo scirocco potesse sovvertire l’ordine abituale ed essere in qualche modo pronuba alla sua passione indecente. Ma non so se questa condivisione meteorologica e geografica delle atmosfere di “Morte a Venezia”, mi abbia giovato nella comprensione dello spettacolo.
L’opera di Britten, che ascoltavo per la prima volta, mi ha colpito per la capacità di evocare atmosfere e stati d’animo attraverso il magistrale gioco strumentale ed armonico, affidato ad un’orchestra di dimensioni cameristiche in cui dominano da un lato il pianoforte, una sorta di moderno basso continuo ad accompagnare il recitativo intonato dei cantanti, dall’altro le percussioni, che creano uno stato d’animo di tensione latente in chi ascolta. Il semplice, ma raffinatissimo tessuto orchestrale, in cui si notano suggestioni orientaleggianti, è arricchito dai ripetuti, preziosi intarsi del coro. Tuttavia non mancano lungaggini e ripetizioni. E l’impressione è che Britten “lavori” attorno al romanzo breve di Mann, che segue fedelmente nel suo svolgersi, piuttosto che coglierne l’essenza con incisività e capacità di sintesi.
Un’impressione simile mi è stata trasmessa dallo spettacolo, che la Fenice ha importato dal Carlo Felice di Genova, ove ottenne, nell’anno 2.000, il premio Abbiati: come dire l’Oscar del teatro in musica. In effetti il glorioso Pier Luigi Pizzi immagina un allestimento particolarmente accurato e attento con preziosa sensibilità ai colori ed ai profumi dell’opera di Britten; un allestimento che convince in tutto ma che, tuttavia, sembra mancare di quel colpo d’ala, di quella intuizione geniale e vincente capace di cogliere in sintesi felice l’essenza di un dramma per restituirla trasfigurata artisticamente allo spettatore. A questa essenza Pizzi sembra girare intorno con la ben nota eleganza, con assoluta pertinenza, con la riconosciuta capacità illustrativa, ma senza riuscire ad afferrarla compiutamente.
Il limite dello spettacolo è forse quello di essere troppo ordinato e razionale, con quell’Hotel des Bains disegnato con geometrica e un po’ fredda linearità, con quella deliziosa Venezia ricostruita attraverso la silhouette dei suoi palazzi e della Basilica. E’ tutto corretto, logico, limpido: ma è proprio nella perdita di tali coordinate che consiste il dramma interiore di Aschenbach, davanti al quale la lucida visione illuministica di Pizzi non sembra risolutiva. Se, quindi, l’angoscia di Aschenbach è dovuta alla perdita della propria dimensione apollinea, cioè ordinata e costruttiva, travolta dall’istinto e dalla passionalità dionisiaca, tale conflitto non è restituito dallo spettacolo di Pizzi, che appare, al contrario, squisitamente apollineo per concezione e scelte estetiche, ben poco concedendo al dio dell’irrazionalità. Anche quando si dovrebbero celebrare i fasti di Dioniso, e cioè nell’orgia rituale sognata da Aschenbach, manca quel senso di sfrenata libertà necessario alla situazione, in quanto il groviglio di corpi, costretto all’interno della rigida struttura geometrica che rappresenta la camera da letto dello scrittore, suggerisce più che altro l’idea di un pigia pigia da ultimi saldi.
Determinante nello spettacolo è la funzione delle coreografie, affidate alla Fenice alle cure di Gheorghe Iancu: giuste, appropriate, ma fin troppo invadenti. Ad interpretarle l’ottimo Tadzio del ballerino Alessandro Riga, ben calato nella parte anche se non propriamente efebico come il quattordicenne concupito da Aschenbach.
Insieme ai ballerini si è impegnata sul palcoscenico una compagnia di canto di elevata professionalità. L’Aschenbach del tenore statunitense Marlin Miller sostiene con pertinenza il prolungato recitar cantando britteniano, che mette alla prova non tanto la dotazione vocale dell’interprete quanto la sua padronanza del solfeggio. L’emissione, quando le dinamiche si fanno più intense, tende a sfuggire al controllo e il timbro si sbianca verso l’alto, secondo un certo vezzo dei tenori anglosassoni, Peter Pears in testa. Ma poco importa in un’opera contemporanea, ove conta più l’espressività che il rispetto delle regole canoniche del bel canto. E’ necessario, invece, osservare che l’Aschenbach di Miller è forse troppo giovane rispetto alle esigenze della parte e accentua la fragilità del personaggio, il suo smarrimento e la sua nevrosi piuttosto che la sua severa rispettabilità, che invece, se adeguatamente sottolineata, darebbe ulteriore risalto al suo rapido abbandonarsi alle leggi dell’eros. Tuttavia, considerate le difficoltà psicologiche e drammatiche prima che vocali imposte da un ruolo di tale complessità, si deve riconoscere a Marlin Miller un rendimento più che apprezzabile.
Ancora più convincente è apparso il baritono USA Scott Hendricks, impegnato in una serie di ruoli (il viaggiatore, il bellimbusto attempato, il gondoliere, il maitre, il barbiere, il capo dei suonatori ambulanti la voce di Dioniso) che, per complessità e varietà vocale e drammatica, nulla hanno da invidiare alle quattro incarnazioni diaboliche de “I racconti di Hoffmann” di Offenbach. I sette personaggi, infatti, che rappresentano tutti il destino, sono affrontati da Hendricks, di certo in conformità alle indicazioni di Pizzi, con un piglio ambiguo ed aggressivo insieme che ne accentua la componente sulfurea e ne fa dei discendenti novecenteschi del demoniaco offenbachiano. Del baritono USA va ammirata la versatilità non solo scenica ma anche vocale con cui interpreta i ruoli affidatigli.
Coperti con grande bravura i ruoli di contorno, fra i quali sembra giusto menzionare, per il livello dell’interpretazione, almeno quelli affidati al soprano trevigiano Sabrina Vianello e al basso-baritono vicentino Luca Dall’Amico, oltre alla Voce di Apollo del controtenore siriano Razek-Francois Bitar. Suggestivi gli interventi del coro istruito da Alfonso Caiani.
Tutto e tutti, compresa ovviamente l’orchestra del Teatro, sono stati affidati alle cure del venerabile, non solo anagraficamente ma soprattutto artisticamente, Bruno Bartoletti, maestro concertatore e direttore cui nulla sfugge dell’architettura costruita da Britten, da lui restituita in ogni più riposta sfaccettatura con intima adesione emotiva e insieme sovrano equilibrio formale. A Bartoletti gli applausi più affettuosi di un pubblico che non ha riempito completamente il Teatro ma alla fine ha decretato un cordiale successo a questa produzione.
Adolfo Andrighetti
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