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Malanotte e Carmenère: due nuove tipologie per la Doc Piave

09/10/2008
La Doc Piave, una delle aree a Denominazione d'Origine più vaste dell'Italia settentrionale (50 comuni in provincia di Treviso e 12 in provincia di Venezia) si è arricchita di due nuove tipologie. Un recente Decreto Ministeriale ha, infatti, apportato importanti modifiche al disciplinare di produzione dei Vini del Piave. Ha anzitutto riconosciuto la varietà “Carmenère”, antica varietà bordolese arrivata nel Nordest italiano assieme al Cabernet franc nell’Ottocento e subito confusa con quest’ultimo. Confusione che non riguarda i viticoltori, che hanno sempre ben distinto quest’uva, chiamata “Cabernet franc italiano”, quanto dalla Legge che ne ha lungamente vietato non solo l’utilizzo per ricavare vini che ne dichiarassero il suo nome in etichetta, ma anche la coltivazione di uve così denominate. Così dopo che nel 2006 la Doc Arcole ha ottenuto il riconoscimento del suo Carmenère Doc, ora anche la Doc Piave (assieme ad un’altra Doc trevigiana, Montello e Colli Asolani) potrà produrre vini con il nome di questo vitigno quasi del tutto dimenticato nella sua originaria Francia, ma recentemente “rinato” – sia enologicamente sia commercialmente - nel Nuovo Mondo enologico.

Se ne rallegra il presidente del Consorzio Tutela Vini del Piave, Antonio Bonotto, rilevando che “sin dal 1991, ossia da quanto l’Istituto Sperimentale per la Viticoltura ha chiarito l’identità del Carmenère, è stato avviato l’iter per ottenere l’autorizzazione all’impianto di questo vitigno con il suo vero nome. Ora, finalmente, grazie anche all'operosa collaborazione della Regione del Veneto, siamo riusciti a completare il percorso burocratico che ha consentito ai viticoltori interessati d’autocertificare il possesso di vigneti di Carmenère, per la veloce iscrizione degli stessi nell’apposito Registro”.

Con l’altra sostanziale variazione, meno immediata negli esiti ma non meno importante, l’istituzione della tipologia “Piave Malanotte”, il Consorzio Tutela Vini del Piave ha voluto dare alla nuova tipologia “Raboso Piave Doc Superiore“ un nome aggiuntivo capace si svincolare il vino dal nome del proprio vitigno, utilizzando un termine a lungo cercato e dibattuto tra i produttori, quindi accettato dal Comitato Nazionale per la tutela e la valorizzazione delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche tipiche dei vini. Volendo rendere omaggio alla lunga storia del Raboso Piave attraverso una figura particolarmente rilevante nel suo percorso secolare, la scelta di un nome aggiuntivo per il Raboso Piave Doc Superiore è caduta su “Malanotte”, dal nome di una famiglia che – pur se originaria del Trentino – ha condizionato e ammodernato la viticoltura nell’area del Piave, attraverso due secoli di conduzione di una rigogliosa azienda agricola a Tezze di Vazzola che si estendeva fino quasi a Conegliano e a Lovadina, su un’area di qualche decina di chilometri quadrati, oggi tutti terreni a Denominazione di Origine Controllata “Piave”.

Il nome “Malanotte”, oltre ad evocare un periodo di grandi innovazioni agrarie e di fiorenti commerci di vino Raboso con la vicina Venezia, è stato scelto anche e soprattutto perché termine che asseconda le regole del marketing contemporaneo, che vestirà le bottiglie di un vino di grande corpo, buona struttura e deciso tenore alcolico con un’etichetta ammiccante, con un nome facilmente memorizzabile anche dagli stranieri che si presta a interpretazioni ed evocazioni le più diverse, in efficace contrasto comunicazionale con la severità del disciplinare che garantirà il contenuto di quelle bottiglie.

In un tempo in cui uno dei primi doveri morali di un vignaiolo è difendere il proprio prodotto dalle insidie della globalizzazione attraverso la proposta della tipicità, unicità e irripetibilità dello stesso, i produttori di Raboso Piave Doc hanno voluto, con la denominazione “Malanotte”, porre l’accento sull'esclusività di questo vino. Il quale ha già la fortuna di essere “Raboso Piave” e di godere quindi di un nome indissolubilmente legato al proprio territorio, ma che ora, con il nome “Malanotte”, si lega ancora di più alla propria Storia, tutelandone l’esclusività e attribuendogli un nome diverso da quello del vitigno, uguale solo al vino prodotto secondo il disciplinare della Doc “Vini del Piave”.

Va detto, e non da ultimo, che si tratta anche di un nome che quasi vent’anni fa la Cantina Sociale di Tezze ha scelto per identificare un suo Raboso Doc Piave registrandone anche la proprietà intellettuale del conseguente uso in esclusiva. E un ringraziamento particolare va quindi alla disponibilità ma anche alla lungimiranza dimostrata dalla Cantina Sociale di Tezze che ha ceduto il marchio “Malanotte” al Consorzio Tutela Vini del Piave Doc e di conseguenza a tutti i produttori che ne vorranno disporre per identificare con questo nome il vino Raboso Piave DOC che presenta i requisiti previsti dal nuovo disciplinare per essere identificato come “Malanotte”.

DUECENTO ANNI DI STORIA DEI MALANOTTE,

DALLA VAL DI SOLE AL PIAVE, FINO AL DECLINO

I “Malanotti” o “Malanotte” appartengono a una delle famiglie più importanti e nobili di Caldès; primo comune di Val di Sole, a pochi chilometri da Malè.

Sull’etimologia del cognome, che non è nota, si formulano alcune ipotesi. Può derivare da: Male noto, ossia malanno, così come da Mala (plurale neutro di malum che significa “mela”) e notte, oppure da Mala nocte, nel senso di tragica, malvagia, cattiva notte. Le prime due derivazioni paiono poco probabili, mentre la terza, ritenuta la più attendibile, deriva da diverse versioni popolari.

A Caldès la tradizione orale parla di un antenato dei Conti chiamato Malanoth per aver trascorso una notte brava in una locanda, all’ingresso del paese. Qualcuno addirittura sostiene che Bernardino de Parolinis (1450-1520 ca.) abbia ereditato il soprannome di Malanoth a causa della sua travagliata nascita, causa di una mala notte per tutta la famiglia.

Nei paesi delle terre del Piave si dice invece che l’etimo deriva da “notte tragica” trascorsa da un cacciatore sopra un generico albero per sfuggire agli assalti di un orso. Ma si parla anche di una mala notte consumata in compagnia di una femmina di malavita, facili costumi e pochi scrupoli, che gli costò una cospicua parte della sua fortuna. Comunque sia, nei documenti d’archivio più antichi appare anche il cognome latino Malanoctae, che cronologicamente diventa Malanocti e Malanotti. E a Tezze di Piave, dal 1800, ritorna e resta nell’antica versione di Malanotte (Innocente Soligon e Giancarlo Bardini: ”Borgo Malanotte”, Gruppo Borgo Malanotte – Tezze di Piave, 2000)

Intorno al 1674, per far fronte alle enormi spese delle guerre contro i Turchi, Venezia mette in vendita i “Beni Comunali” e offre occasioni favorevoli sia per interessanti investimenti in case, i cui affitti sono considerevoli, sia nella gestione dei “Beni Ecclesiasitci”, i più importanti dei quali sono appannaggio dei patrizi veneti mentre i minori (chiese, ospedali ecc.) sono destinati alla piccola nobiltà di terraferma.

In questo periodo una linea dei Malanotti si trasferisce a Verona, Padova e forse a Milano, mentre il ramo che si distinguerà per l’uso di una delle più antiche versioni del cognome – cui fa capo Gio Batta Malanotte - decide di emigrare a Venezia per sottrarsi all’impoverimento generale del Trentino, dove la devastante Guerra dei trent’anni e le conseguenze della peste del 1630-31 avevano determinato la crisi delle vallate costringendo il popolo alla fame, mentre i nobili tentarono di espatriare.

L’attenzione di Gio Batta dei nobili Malanotti, attratta dalla particolare situazione, si concentra nell’acquisto di Beni Comunali nelle pianure del Piave e di palazzi a Venezia. E subito la sua abilità di uomo d’affari si misura con una delle principali risorse agricole della sua nuova “residenza di campagna”. Tra il 1686 e il 1689 sono numerose le grandi partite di vino nero prodotto a Tezze di Piave che vende a Venezia (Archivio di Stato di Venezia, “Archivio Tiepolo”, I deposito, b.253, fasc.2, cc.tv, 12r.)

I discendenti di questo ramo veneziano della famiglia sono i fondatori della villa veneta, sorta nel secolo XVII in località Tezze di Piave, dove l’antico maso della locale famiglia dei Bonotti diventa Borgo e nel Settecento assume il nome dei nuovi blasonati proprietari. Quelli che dal Settecento si distinguono dagli altri per l’uso della più antica versione latina del nome Malanocte, italianizzato in Malanotte.

Grazie a numerosi “acquisti a livello” (prestiti in denaro con ipoteca sui beni immobili del debitore che continuava a lavorare la terra e a rimanere nella casa ipotecata pagando una specie di affitto sotto forma d’interessi sul capitale ricevuto), dei quali un centinaio rintracciati negli atti notarili, i Malanotte incrementano velocemente il loro patrimonio terriero, inserendosi prepotentemente nella proprietà fondiaria del paese, determinandone lo sviluppo e la vita economica.

La famiglia accumula così oltre 700 campi e diverse case padronali a Conegliano, e con Pier Antonio Malanotte, nella seconda metà del Settecento, raggiunge il massimo splendore.

Con l’arrivo del Malanotte sul Piave è attuata una trasformazione radicale nelle coltivazioni. Si passa immediatamente dalla preminenza di pascoli e prati all’estensione dei seminativi, soprattutto frumento e granturco, con particolare diffusione dei vigneti.

Una delle notifiche di Decima (precursori delle odierne denunce dei redditi) che i possidenti presentavano al Senato della Repubblica di Venezia, indica che in data 26 settembre 1740 la proprietà fondiaria dell’Abbate Girolamo Malanotte è costituita da 442 campi, ubicati per la maggior parte a Tezze e Soffratta, con vari appezzamenti a Mareno, S.Michele di Piave e Visnà. Dall’analisi di quest’articolata dichiarazione si evince che il prodotto più coltivato era il mais e che assieme ad esso è il vino la componente più importante del reddito dominicale. Al contadino spetta la metà del prodotto, ma la quota è defalcata dal quartese e dal nolo delle botti. Dalle denunce di alcuni poderi dei Malanotte si deduce anche che spesso il vino era ceduto dal contadino in sostituzione della quota d’affitto della casa.

I vitigni più coltivati nei territori dei Malanotte sono quelli più diffusi nel Settecento, primo tra tutti il Raboso (Rabosa o Recandina), seguiti dal Marzemino, dal Verdiso e dalle Bianchette e i proprietari sono tenuti a fornire le piante sia per le nuove piantagioni sia per le sostituzioni. Le viti sono maritate al pioppo o al gelso, disposte in filari secondo il sistema di coltivazione denominato “piantana” che caratterizzerà fino ai primi decenni del Novecento il paesaggio agrario del Piave.

L’attività di Pier Antonio (pronipote di Girolamo) dal 1755 al 1775 è frenetica non solo negli acquisti ma soprattutto nell’ammodernamento delle culture agricole, della Villa e dell’ampio e complesso Borgo limitrofo. Egli risiede a Venezia ma è spesso presente a Tezze, attento alla conduzione dell’azienda in un periodo di crisi agricola che egli cerca di risolvere seguendo con interesse gli insegnamenti delle Accademie Agrarie che cercavano di orientare i coltivatori verso un miglioramento agricolo.

Per far conoscere i risultati ottenuti con i suoi esperimenti agricoli, il 16 dicembre 1769 ospita nella sua azienda 450 persone, tra cui i maggiori agricoltori del Veneto e tutti i suoi contadini, e offre loro un banchetto memorabile capeggiato dal famoso fisiocrate conte abate Vinciguerra VII di Collalto. Fra gli altri è presente anche uno dei più noti studiosi dell’epoca, l’agronomo Giovanni Scottoni, che in una relazione pubblicata in seguito da una rivista specializzata rivolge i suoi complimenti al Malanotte “per la sua magnanimità” e si congratula ammirato per “il valido rinnovamento colturale introdotto” (Pier Angelo Passolunghi: “Libero in Cà Collalto - dai carteggi dell’agronomo veneto Giovanni Scottoni”, in “Atti e memorie dell’Ateneo di Treviso”, n.s. 1991-1992, n.9.)

Anche la vinificazione subisce grandi mutamenti, in questo periodo. Considerata inizialmente un’incombenza contadina, nella seconda metà del Settecento passa sotto la competenza del proprietario determinato a sovrintendere personalmente le fasi di questa delicata lavorazione che può influenzare sostanzialmente la qualità del prodotto ottenuto. Così Pier Antonio fa costruire, dietro la Villa, una nuova cantina che andrà distrutta dai bombardamenti durante la Grande Guerra.

E’ il vino rosso, che è in massima parte ottenuto da uve Raboso, il più conosciuto e apprezzato, tanto da varcare i confini locali ed anche nazionali. Infatti, in una guida francese del 1855, destinata ai primi viaggiatori diretti in Italia, è raccomandato di visitare Conegliano e di bere “le vin rouge Malanotte di Tezze” (Ernest Foerster, “Manuel de Voyageur en Italie”, Munich 1855).

Nel 1775 l’attivissimo Pier Antonio Malanotte deve registrare i primi segnali di declino, iscritto nei numerosi atti notarili giunti fino a noi che registrano il progressivo indebitamento della famiglia: la liquidità è diminuita, la gestione patrimoniale non è per niente positiva e sembra fallire anche il tentativo di sfruttare la struttura esistente dell’azienda (mettendo a profitto sia la conoscenza agronomica sia gli uomini e gli strumenti di lavoro) prendendo a prestito del denaro contro ipoteche sugli immobili. Ma i tempi sono davvero cambiati, e alla fine degli anni 80 del Settecento i Malanotte perdono parecchi terreni dati in garanzia dei numerosi debiti che non sono riusciti a onorare.

E’ anche l’inizio di un periodo molto difficile per il Veneto tutto, che tra il 1796 e il 1815 vive una gravissima crisi causata da una terrificante successione di eventi devastanti a carattere climatico e politico. I raccolti sono miseri e ben sei sono le campagne militari con scontri tra francesi e austriaci, requisizioni e devastazioni che vanno ad affamare la regione e ad azzerare le rendite immobiliari. In tali contingenze è impossibile per i Malanotte ottenere un recupero sulla redditività che, per la verità, non avviene nemmeno quando la situazione economica migliorerà, a partire dal 1830. Questo perché oramai la situazione era molto, molto mutata.

Intanto la fine della Repubblica di Venezia (1797) aveva peggiorato la situazione e nel 1802 moriva Pier Antonio, che lascia le proprietà terriere, la Villa e il Borgo al figlio Domenico, che non ha certo la personalità del padre e il cui interessamento all’azienda è molto modesto; a un altro figlio, sacerdote, assegna alcuni beni immobili.

La crisi è comunque ancora latente: alla morte di Domenico (1828) la sua unica figlia, Camilla, eredita oltre 600 campi, con la Villa e le case coloniche. Sposatasi con il nobile coneglianese Francesco Concini, Camilla resta vedova nel 1864 e non riesce a reagire all’accumulo di debiti che avevano annullato il pur consistente patrimonio immobiliare, creando così le condizioni perché l’intera proprietà, già ipotecata, fosse posta sotto sequestro dal Tribunale. Dopo circa 200 anni i Malanotte persero così tutti i loro terreni nella zona del Piave e la loro Villa di Tezze.

Alla morte di Camilla, i suoi figli ereditano dal padre il nome di Concini e, di fatto, la presenza della famiglia Malanotte nelle terre dei Piave si azzera. Il ramo familiare rimasto in Trentino, come detto, ha già da secoli declinato il suo cognome in “Malanotti”, mentre restano nel veneziano rari esempi del cognome Malanotte.

IL CARMENÈRE: STORIA DI UN NOME RITROVATO

Il Decreto Ministeriale che riconosce la tipologia Carmenère Doc Piave è stato firmato e pubblicato nei giorni di vendemmia, quando l’impegno di ciascun produttore vitivinicolo era concentrato sulla raccolta, mentre i tempi per l’espletamento delle pratiche burocratiche necessarie alla variazione dell’iscrizione dei vigneti da Cabernet franc a Carmenère erano davvero stretti.

Nonostante ciò, grazie ad un intenso lavoro di squadra tra Consorzio Tutela Vini del Piave, Regione del Veneto (nella persona dell’infaticabile dott. Giuseppe Catarin della Direzione Produzioni Agroalimentari) ed AVEPA di Treviso (un ringraziamento particolare al suo dirigente, dott. Alberto Zannol) e grazie alla volontà dei produttori che hanno capito l’importanza della nuova opportunità che il Carmenère rappresenta, numerose sono state le richieste di variazioni che porteranno alla produzione di almeno una decina di etichette di Carmenère Doc Piave vendemmia 2008. Era questo il valore minimo che il Consorzio si era prefissato per affermare che l’annata 2008 segnerà il “debutto” di questa nuova tipologia (in Italia presente solo nelle Doc Arcole e Montello e Colli Asolani, ma in dimensioni piuttosto ridotte rispetto a quelle che la Doc Piave può produrre) e sostenere con campagne stampa e altre iniziative in fase di studio il “lancio” sul mercato di questo vino antico dal nome nuovo.

Perché è questo che i vignaioli del Piave dovranno presto fare: promuovere un vino che ben conoscono, ma con un nome diverso dal solito. Un nome affascinante, tra l’altro, con una lunga storia fino a ieri non riconosciuta dall’Albo Vigneti. Un nome che sta vivendo un brillante presente, ad esempio, in Cile ed anche in California. Nome, quindi, che potrebbe diventare un indiscutibile valore aggiunto per un prodotto che ha già una sua discreta diffusione e richiesta, del quale conoscono già le più adeguate tecniche di vigneto e di cantina. Un nome del quale, di seguito, illustriamo il percorso storico, in attesa di poter scriverne il futuro.

DA PLINIO IL VECCHIO ALL’ERRORE STORICO

Di sicuro, come per i Cabernet, sappiamo che il Carmenère deriva dalla “Vitis biturica” giunta nel bordolese in epoca romana, anche se Plinio il Vecchio (nel 71 d.C.), riporta che era coltivata nell’attuale zona di Bordeaux dalla tribù celtica dei Biturigi, mentre Columella – poco prima – sostiene che provenisse da Durazzo (Albania) e sapeva che era coltivata in varie zone dell’Hiberia (Spagna) e in particolare nell’attuale Rioja.

Nell’eterogenea famiglia di vitigni neri coltivati nel secolo scorso nel bordolese, che genericamente erano chiamati “Cabernet”, si sono distinti fino ad assumere indicazione autonoma il Cabernet sauvignon e il gruppo dei Cabernet franc. E proprio tra quei Cabernet, come confermato da studi condotti in Francia all’inizio del Novecento (“Ampélographie”, di P.Viala e V.Vermorel, 1905), vi era anche il Carmenère (il cui nome pare derivi dalla parola “carmine”, per il colore particolarmente intenso del vino), identificabile per alcune particolarità morfologiche e soprattutto organolettiche delle sue uve. Fin dalla prima metà dell’Ottocento, infatti, il Carmenère era stato distinto dal Cabernet per i grappoli più grandi e più spargoli, per la vigoria, la scarsa fertilità, l’aroma e il colore più intenso delle bacche (“Ampélographie Universelle” di P.Odart, 1849), ma quando fu importato in Italia assieme agli altri Cabernet – probabilmente intorno al 1820 dal Conte di Sambuy che ne impiantò un vigneto in Valmagra – fu scambiato per una degenerazione e indebolimento del Cabernet franc.

Come conseguenza, nel Veneto e in Friuli, questo tipo – notevolmente diffuso proprio perché la sua vigoria e la sua necessità di potatura lunga si potevano adattare alle condizioni di coltura e perché la grande qualità del vino poteva far sopportare produzioni anche scarse – diventava per ampelografi, studiosi e coltivatori il prototipo del Cabernet franc.

GLI STUDI PIU’ RECENTI

Negli anni Sessanta del Novecento, quando Antonio Calò e Carmine Liuni indagarono sui fenomeni di colatura cui andava soggetto il cosiddetto Cabernet franc presente nel Veneto, furono importate delle collezioni francesi di Cabernet franc lì coltivato, e le diversità tra i due tipi cominciò ad apparire evidente. Fu, però, attribuita a variabilità clonale, tanto che furono distinti nella pratica della propagazione, anche se impropriamente, un Cabernet franc di tipo francese e un Cabernet franc di tipo italiano, che poi si dimostrerà essere Carmenère.

Fu un successivo studio di caratterizzazione varietale tra i cloni francesi e italiani con marcatori biochimici a mettere in luce che si trattava, probabilmente, di due vitigni diversi. Dubbi dissolti da analisi condotte negli anni 1988-91 presso l’Istituto Sperimentale di Viticoltura di Susegana, che hanno evidenziato che:

 La foglia del Carmenère è identificabile per essere leggermente più stretta, con i seni laterali più profondi e il seno peziolare maggiormente sovrapposto, così com’era già stato messo in risalto da studi precedenti e come ha confermato l’analisi computerizzata.

 Il grappolo è identificabile per la forma cilindrico-conica, ma soprattutto per la maggiore spargolicità dovuta a maggiore colatura; questa è la conseguenza di fiori anomali in discreta percentuale per la spilatura degli stami.

 Fisiologicamente il vitigno è più vigoroso, leggermente più precoce di maturazione e meno fertile, soprattutto nelle gemme basali del capo a frutto. Anche questi elementi sono riportati in letteratura enologica precedente.

 L’analisi chimica delle uve e del vino dimostra che il Carmenère è molto più ricco di 2-metossi 3-isobutil pirazina, giustificando così il maggiore sapore erbaceo anch’esso richiamato nelle vecchie descrizioni ampelografiche.

 Per quanto concerne i fenoli è più ricco in antociani ed ha più alti flavonoidi totali, confermando anche qui le vecchie descrizioni che parlano di uve più colorate. Inoltre l’uva ha una percentuale più bassa di peonina e di antociani acetati e più alta di antociani p-cumarati.

 L’uva mostra poi rapporti malvina acetato/malvina p-cumarato più bassi

 L’analisi chimica dei semi rileva un rapporto catechina/epicatechina minore, così com’è più basso il contenuto di acidi idrossicinnamil tartarici del mosto.

Sono trascorsi ben diciassette anni dalla pubblicazione dello studio condotto da Antonio Calò, Rocco Di Stefano e Angelo Costacurta sulla Rivista Viticola Enologica che ha evidenziato inequivocabilmente che il vitigno Cabernet franc comunemente detto “italiano”, diffusissimo nella Doc Piave così come in tutto il Veneto e il Friuli – è in realtà Carmenère. E dopo diciassette anni suonano ancora “come nuove”, un po’ “per forza di cose”, un po’ perché scritte con accorta lungimiranza, le righe conclusive di quel lungo articolo: “Riteniamo così risolto l’equivoco del secolo scorso, quando al momento dell’importazione in Italia di questi vitigni furono commessi errori ampelografici che si sono mantenuti nel tempo anche per la scarsa conoscenza del Carmènere, via via abbandonato nelle coltivazioni francesi. Il movimento di rivalutazione dei vecchi vitigni di pregio sta ora risvegliando, anche nel bordolese, interesse per il Carmenère e l’aver mantenuto in Italia una culla culturale di questa varietà è fatto importante, specie se legato anche a interessanti selezioni clonali effettuate”.

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