Asterisco Informazioni di Fabrizio Stelluto

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Mortali, io cerco amor

14/10/2008
Correva l’anno 1637 e nella vivace Venezia dell’epoca, ove il denaro dei commerci alimentava divertimento e cultura che ancora convivevano felicemente sotto le stesse forme espressive, si stava preparando un avvenimento epocale nella storia del melodramma: il teatro di S. Cassiano diventava il primo al mondo ad aprirsi ad un pubblico pagante. Fino ad allora il giovane melodramma, nato agli albori del XVII secolo per iniziativa di un gruppo di intellettuali fiorentini acchiappanuvole che volevano riportare in vita la singolare miscela di recitazione e canto del teatro classico, era soltanto un raffinato divertimento che si concedevano le corti dei re e dei signori italiani; un passatempo alla moda riservato a palati fini e un po’ annoiati.

L’intuizione di spalancare le ricche cortine delle sale nobiliari per mettere la nuova forma d’arte a disposizione di chiunque fosse disposto a pagare il biglietto, fu una rivoluzione di carattere sociale, perché al privilegio del titolo acquisito con la nascita sostituiva quello, tipicamente borghese e almeno potenzialmente alla portata di tutti, del denaro. Ma rappresentò addirittura un big bang per la storia del melodramma, perché permise ad un fenomeno concepito da un’elite intellettuale e goduto da un’elite araldica, di affermarsi in tutto il mondo e presso tutte le classi sociali, diventando un fatto artistico di largo consumo, nonché un catalizzatore e moltiplicatore formidabile di risorse intellettuali ed economiche. Come dire che la figura del compositore di opere che vive e si arricchisce col proprio lavoro, come fecero Rossini, Verdi, Puccini e molti altri, non sarebbe concepibile senza quella antica e geniale intuizione, che intravide in un passatempo esclusivo le potenzialità per interessare un pubblico vasto.

E proprio al teatro S. Cassiano, solo cinque anni dopo la sua apertura al pubblico e cioè nel 1642, fu rappresentata per la prima volta “La virtù de’ strali d’Amore”, l’opera tragicomica che Francesco Cavalli, musicista lombardo di nascita ma veneziano d’adozione, compose su libretto di Giovanni Faustini e che la Fenice, nell’ambito della stagione d’opera 2008, ha messo in scena al teatro Malibran in prima rappresentazione italiana in tempi moderni. Cavalli è una figura centrale di questa stagione così ricca, soprattutto in laguna, di vitalità e di iniziativa. Trasferitosi ragazzo a Venezia e allievo prediletto di Monteverdi quando questi era direttore della cappella marciana, dominò per molti anni le scene dei cinque teatri veneziani aperti al pubblico dopo la felice esperienza del S.Cassiano, cercando e trovando un equilibrio fra il recitativo intonato, capace di mettere in risalto la forza della parola ma sempre a rischio di monotonia, e lo stile vario della cantata, già presago di ciò che diventerà di lì a poco il melodramma con le sue arie, duetti e terzetti.

La trama della “Virtù”, dovuta alla fantasia dell’avvocato ventisettenne Giovanni Faustini che collaborò ancora a lungo con Cavalli, si presenta come un pasticcio classico-mitologico con un unico ingrediente di base: l’amore, concepito, in modo alquanto disinvolto e sbarazzino, come gioco dei sensi e attrazione dei sessi. Non per niente il melodramma si apre con un prologo in cui Capriccio e Piacere si alternano nel blandire gli umani perché si abbandonino senza pensieri al godimento dell’eros; e si chiude, siamo alla penultima scena del terzo atto, con un singolare duetto libertino in cui soprano e tenore cantano “Andiam ch’Amor ci invita ai bacci,/andiam ch’Amor ci invita al letto”. Tra questi due momenti, simbolicamente riassuntivi dello spirito de “La virtù”, si aggroviglia un intreccio erotico inestricabile, dove i personaggi, in preda a una furibonda tempesta ormonale, si inseguono l’un l’altro per accoppiarsi. In mezzo a questo turbine vorticoso si agita Amore, il dio raffigurato al Malibran come uno schermidore che accende la passione con il fioretto anziché con l’arco e le frecce, deus ex machina pasticcione ma non al punto da impedire il lieto fine.

Insomma la trama, per la mentalità di oggi, è alquanto scioccherella e tale rimane nonostante la versificazione non priva di eleganza di Faustini e qualche facezia che all’epoca poteva suonare piccante. Né riesce ad insaporire un minestrone scipito l’allestimento visto al teatro Malibran e dovuto, come ormai da apprezzabile tradizione, alla facoltà di design ed arti dell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia (IUAV), con i tutors Davide Livermore per la regia, Tiziano Santi per le scene, Vera Marzot per i costumi, Claudio Coloretti per le luci. Non basta, in effetti, trasportare la vicenda ai giorni nostri per ridare vitalità ad un mondo musicale e teatrale così lontano culturalmente oltre che cronologicamente e bisognoso di un colpo d’ala, di un’intuizione vincente, per scrollarsi di dosso la polvere museale e trasmettere qualche emozione al pubblico. Ed è proprio la mancanza o la non evidenza di un’idea di fondo, che conferisca coerenza ed omogeneità all’assieme, il limite maggiore di una regia che, presa momento per momento, presenta anche delle soluzioni apprezzabili, ma sembra priva di una solida concezione unitaria. L’impianto scenico, poi, un nudo hangar di cemento “ravvivato” soltanto da cavi d’acciaio e scale a pioli metalliche, risulta del tutto estraneo allo spirito della vicenda, raggelandone l’atmosfera ora brillante ora passionale con la sua astratta stilizzazione da opificio. Lo spettacolo, quindi, finiscono per farlo soprattutto i costumi, questi sì variopinti ed intonati a ciò che succede in scena, e qualche apprezzabile gioco di luci.

Insomma, eliminato il “meraviglioso” barocco, per il quale non abbiamo più le risorse economiche, normalizzato il fantastico, che viene ridotto a smorta parodia, non valorizzato in maniera adeguata l’elemento erotico, che uno scipito striptease finale non basta a restituire nella sua giocosa vivacità, che resta de “La virtù de strali d’Amore?” E che resta del teatro in musica del ‘600? Per cui ci si chiede se abbia senso riproporre questo repertorio se non si riesce a sostituire con un allestimento originale ed avvincente i “macchinismi” dell’epoca, che stupivano gli spettatori alleggerendo la monotonia dei recitativi e enfatizzando i colpi di scena della trama.

La parte musicale è garantita dal prestigioso marchio di fabbrica, più volte sperimentato a Venezia, rappresentato da Fabio Biondi e dalla sua orchestra di strumenti d’epoca “Europa Galante”. Il bravissimo maestro, responsabile anche della revisione dell’opera soprattutto per quanto riguarda lo strumentale, concerta con grande attenzione per l’andamento del palcoscenico e conferisce la giusta vitalità ritmica ai momenti più cantabili della partitura, spesso affidati alla sola orchestra; una partitura che si sviluppa in crescendo, con il recitar cantando che domina il primo atto e poi si apre, sempre più spesso, a momenti musicalmente più articolati, siano essi ariosi, duetti, terzetti, o una sorta di brevi intermezzi strumentali.

Del nutrito e preparato cast è sembrata più agguerrita la parte femminile, che ha trovato il suo elemento di spicco nel soprano Roberta Invernizzi, Cleria dal fraseggio incisivo e Venere spiritosa. Le altre erano Giacinta Nicotra, Gemma Bertagnolli, Cristiana Arcari, Monica Piccinini, Donatella Lombardi, Milena Storti. Fra gli uomini, è dispiaciuto vedere i bravi Filippo Morace e Roberto Abbondanza in parti poco adatte a valorizzarli. Abbondanza, in particolare, è parso a disagio in un ruolo dalla tessitura troppo grave per la sua corda baritonale. Gli altri erano Juan Sancho, Paolo Lopez, Marco Scavazza, Filippo Adami, Gian-Luca Zoccatelli.

Al termine successo caloroso, con gli applausi più nutriti e convinti giustamente indirizzati a Fabio Biondi.

Adolfo Andrighetti

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