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Asterisco Informazioni di Fabrizio Stelluto

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Va pensiero...e non dimenticare le sofferenze degli ebrei

27/10/2008
Il “Nabucco” appartiene senza alcun dubbio alla più genuina leggenda verdiana. Sarà per la sua drammaticità infuocata, dal ritmo teatrale incalzante, senza una nota o una frase superflua, secondo il miglior stile del compositore, che, uomo di teatro come pochi, fuggì sempre la prolissità e scelse la concisione come la strada maestra per raggiungere ciò che chiamava “l’effetto”. Sarà anche per quei cali di ispirazione, quelle soluzioni di routine, quegli accompagnamenti volgarotti che si incontrano anche nel Nabucco come in tutto il primo Verdi, quando il maestro inseguiva il successo e voleva fare musica teatrale piuttosto che musica nobile. E sarà anche per quel garbato aneddoto, un po’ cronaca e un po’ leggenda, secondo il quale il giovane Verdi, svuotato di energie per la scomparsa nel giro di un paio d’anni della moglie e dei due figlioletti e per l’insuccesso della sua seconda opera, “Un giorno di regno”, riprese la voglia di lavorare e forse anche di vivere quando, nel libretto manoscritto del Nabucco da lui gettato distrattamente su di un tavolino e apertosi per caso proprio in quel punto, lesse il verso “Va pensiero sull’ali dorate”, che lo affascinò riempiendolo di nuovo entusiasmo. Sarà, quindi, anche per questo coro ormai entrato nel leggendario popolare, al punto che qualcuno lo vorrebbe sostituire all’inno di Mameli, dimenticando che il canto di un popolo in esilio che vagheggia la patria non può diventare il simbolo sonoro di una nazione. Sarà anche per le emozioni risorgimentali che il “Nabucco” suscitava nel pubblico di allora, con quella “patria sì bella e perduta” di cui si canta ancora nel coro celebre, con quel conflitto tra un popolo perseguitato, l’ebraico, ed uno persecutore, l’assiro, in cui la borghesia colta milanese poteva sentire un’eco dei suoi sentimenti antiaustriaci. E sarà anche perché “Nabucco” rappresentò il primo trionfo verdiano e lanciò definitivamente il maestro in una carriera che, per quanto carica di gloria, non conobbe forse mai più un successo così assoluto, entusiasta e travolgente.

Insomma, se mai esistesse una categoria dello spirito definibile come verdianità, fatta di cuore, sentimenti schietti, arte semplice e comunicativa, troverebbe ottima espressione nel “Nabucco”. Verdi compose molte altre opere certo più complete sul piano artistico ma mai così impregnate di quell’umore sanguigno, di quella vena sbrigativa e trascinante caratteristici della sua prima produzione, che alcuni critici considerano ancora rozza e valida soprattutto nella prospettiva di quella più matura, mentre è ritenuta da altri il frutto più spontaneo, schietto e vigoroso della sua arte.

Da ogni genere di retorica verdiana, giustificata o meno, si tiene invece lontano lo spettacolo che si è ammirato in questi giorni alla Fenice, per la regia e le scene di Gunter Kramer, i costumi di Falk Bauer, il disegno luci di Guido Petzold. La soluzione scelta è stata ancora una volta quella del trasferimento d’epoca, per cui gli ebrei deportati dal re assiro Nabucodonosor, che distrusse il tempio di Gerusalemme intorno al 580 a.C., sono diventati gli ebrei perseguitati nel secolo scorso, chiusi nei loro abiti scuri, l’aria smarrita, i bagagli ai piedi a simboleggiare quell’esodo perenne cui il popolo della Legge sembra inesorabilmente condannato sin dalle sue origini. L’attualizzazione, che potrebbe apparire scontata e avere uno sgradevole retrogusto di déjà vu, riesce ad emozionare grazie alla severità ed alla misura della regia e dell’allestimento, che danno vita ad un’atmosfera cupa ed oppressiva senza scivolare nel facile effettismo.

Così la scena è completamente vuota, come si addice ad un dramma, quello del popolo ebraico, che non può essere descritto esteriormente ma va consegnato ad un’assoluta sobrietà esornativa ed accolto nella sua essenziale, tragica nudità. Durante l’ouverture, due mimi nerovestiti pregano l’uno secondo la ritualità ebraica, l’altro con gli atteggiamenti del musulmano, per poi mettersi a lottare fra di loro sui fortissimi dell’orchestra e quindi giacere al suolo inanimati entrambi e sconfitti, a simboleggiare l’inanità di ogni guerra. Durante i primi due atti la cupezza della scena, esaltata per contrasto dalla luce cruda e innaturale che cala su Nabucco, è mitigata da grandi scritte in aramaico che vengono proiettate sui parapetti dei palchi, avvolgendo gli spettatori in un abbraccio che comunica un senso di solidarietà per la condivisione collettiva della tragedia, ma, per le stesse ragioni, mette a disagio ed inquieta, perché coivolge quasi fisicamente anche chi volesse dichiararsi estraneo a quanto successo.

Profondamente emozionante anche la realizzazione del “Va pensiero”. Alla prime note i coristi si presentano distesi ed immobili come cadaveri, immagine desolante di un popolo sconfitto. Quindi, col procedere della musica, si alzano uno dopo l’altro, portando ciascuno una grande foto raffigurante un ebreo vittima delle persecuzioni razziste. Al termine del pezzo, ogni corista si avvicina al proscenio, alza la foto e la presenta al pubblico, quindi la colloca sul pavimento all’altezza della buca dell’orchestra, con una gestualità fortemente simbolica che assume la solennità e la sacralità del rito. Il pubblico ha preteso ed ottenuto il bis del “Va pensiero”: secondo tradizione, certo, ma anche per scaricare la tensione di un momento teatrale che si era fatto emozione di vita e per ringraziare chi aveva permesso che la magia si realizzasse.

Fra questi anche il maestro Renato Palumbo, che ha depurato il celebre coro d’ogni enfasi e lo ha restituito alla sua natura di invocazione dolente e nostalgica. In generale, Palumbo ha impostato una direzione impetuosa ed infuocata laddove il “Nabucco” lo impone, non mancando però, nello stesso tempo, di curare con attenzione gli accompagnamenti, che vengono riproposti come ripuliti e rinfrescati secondo una concezione estetica che guarda ancora a Bellini e Donizetti piuttosto che al Verdi maturo.

La menzione della compagnia di canto si apre questa volta con il coro, grande protagonista di “Nabucco” e non solo per il “Va pensiero”. Istruito da Claudio Marino Moretti, si è imposto per la duttilità con cui ha saputo variare le sonorità senza mai smarrire la compattezza e l’omogeneità dell’insieme.

Il baritono Alberto Gazale, nei panni del protagonista, ha fornito un’interpretazione in crescendo, trovando nella seconda parte dell’opera la grinta e gli accenti incisivi che non lo avevano sostenuto nella prima. La sensazione, tuttavia, è che lo strumento, per sostenere ruoli verdiani di questa caratura vocale e psicologica, manchi di un quid di potenza e risonanza, di un colore che, in certe frasi, dovrebbe essere più bronzeo, meno chiaro; per cui la raffigurazione vocale del sovrano assiro rimane immediatamente al di sotto del livello necessario di autorevolezza e grandiosità.

Ho accolto con grande soddisfazione e con un sospiro di sollievo, invece, la prestazione del glorioso Ferruccio Furlanetto, che, nel corso della prima da me ascoltata per radio, era apparso in difficoltà a reggere la più impegnativa parte di basso scritta da Verdi, rifugiandosi in accenti e sottolineature plateali non degni della sua classe. Questa volta, invece, l’artista si è confermato il migliore in campo, imponendosi per l’omogeneità e la rotondità dell’emissione, oltre che per la nobiltà del fraseggio ed il prestigio della presenza scenica. Nell’ingrata parte di Ismaele ha fatto molto bene il giovane tenore Roberto De Biasio, dalla voce fresca, squillante e lucente, cui si può raccomandare soltanto uno sforzo ulteriore per raggiungere un completo controllo dell’emissione.

Sulla Abigaille del soprano Paoletta Marrocu il ragionamento si fa più articolato. E’ noto come il ruolo della figlia di Nabucco, assetata di potere perché delusa in amore, è estremamente impegnativo sul piano vocale, per le asperità di un canto irto di ampi intervalli, di ascese all’acuto da affrontarsi di forza, di frequenti agilità e per la duttilità richiesta da un fraseggio drammaticamente molto acceso alternato, però, da oasi liriche e raccolte. Il soprano sardo, in effetti, ha tutto per essere una credibile Abigaille, a cominciare dal temperamento da artista di razza e dalla capacità di conferire alla frase i colori e gli accenti più appropriati per esprimere i violenti sentimenti che agitano il personaggio. Purtroppo l’organizzazione vocale non sembra al meglio, in questo momento: l’emissione risulta disomogenea, gli acuti sono troppo spesso gridati, la zona centro-grave è carente di peso e sonorità.

Nel più agevole (almeno questo!) ruolo di Fenena, l’altra figlia di Nabucco che si converte al Dio degli ebrei per amore di Ismaele, ha figurato con decoro il mezzosoprano moscovita Anna Smirnova. Un Gran sacerdote di Belo dalla voce di basso di bel timbro e colore è stato Francesco Musinu, cui gioverebbe alleggerire di tanto in tanto i centri per migliorare l’approdo alle note più gravi. Corretti l’Abdallo del tenore Luca Casalin e l’Anna del soprano Elisabetta Martorana.

La pomeridiana cui si riferiscono queste note è stata accolta da un successo rumoroso e caloroso, nel quale l’entusiasmo per gli artefici dello spettacolo si è alimentato di quello dovuto alla trascinante musica verdiana.

Adolfo Andrighetti

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