Gelosia dodecafonica e gelosia italica
Da una parte, infatti, correva l’anno 1928, c’è il primo lavoro teatrale di Schoenberg programmaticamente dodecafonico, inserito come uno spartiacque nel vivo di quella cultura europea che molto si agitava per rompere con le tradizioni del passato e, in campo musicale, era ben avviata nel chiudere con la tonalità ed i suoi punti di riferimento per aprirsi ad un universo ove il superamento dell’armonia e dell’equilibrio formali rifletteva la crisi esistenziale dell’uomo contemporaneo. Dall’altra, un lavoro che, risalendo al 1892, è l’epigono fedele di una civiltà musicale squisitamente italiana, dalla felice e trascinante vena melodica, ove il canto è ancora in grado di mettere le ali ed imporre quelle ragioni che la fredda ragione forse tiene a distanza ma il cuore ben riconosce ed accoglie.
Il melodramma di Schoenberg, poi, secondo una certa moda allora diffusa nella cultura della Berlino d’avanguardia, rappresenta la parodia della superficialità del mondo borghese, agitato da ridicole velleità trasgressive nei confronti dei suoi stessi valori identitari, come la stabilità del matrimonio e la sicurezza degli affetti, considerati delle gabbie al cui interno viene costretta la libera espansione della personalità. Protagonista è una coppia aperta, almeno così sembra, alla possibilità di concedersi delle evasioni coniugali. Lui durante una festa è stato affascinato da un’amica della moglie. Lei è stata corteggiata da un cantante d’opera. Dopo gli inevitabili screzi, i coniugi ritrovano il proprio equilibrio di coppia e quando ricevono in visita l’amica di lei ed il cantante in cerca di facili emozioni, rimangono insensibili al loro fascino. Se la parodia colpisce in primo luogo la coppia mondana, cioè il celebre tenore e l’amica, non lascia indenne neppure quella borghese, per la vacuità giuliva con cui si abbandona all’idea di uscire dagli schemi morali consueti. Alla fine, tuttavia, prevale il buon senso e, come si legge nel libretto scritto dalla moglie di Schoenberg, la moda, cioè il motore delle azioni della coppia trasgressiva, esce inevitabilmente sconfitta dal confronto con l’amore, cemento della coppia borghese.
In Leoncavallo, invece, non è la borghesia ad agire, ma il proletariato, colto nelle sue emozioni più rozze e sanguigne. E’ un dramma a forti tinte, ispirato all’autore da un fatto di cronaca nera di cui il padre magistrato condusse il processo. L’universo plebeo e brutale dei Pagliacci, con gli insulti e le invettive di Canio contro la moglie che lo tradisce con un contadino del luogo e la soluzione finale dell’assassinio dei due amanti sulle scene di un povero spettacolo da guitti girovaghi, è agli antipodi del gioco caricaturale di Schoenberg, la cui inconsistenza è il frutto di una precisa scelta estetica diretta ad esprimere la presunta povertà culturale e morale della classe borghese.
Nel compositore austriaco, insomma, il desiderio di dare vita ad un divertissement ironico se non addirittura sarcastico, che si compiace della sua stessa raffinatezza intellettuale. In Leoncavallo, invece, il proposito di mettere in scena una vera e propria tranche de vie, secondo i canoni culturali ed estetici del verismo musicale allora in voga, che alle vicende suggestivamente remote e alle atmosfere idealizzate del romanticismo preferiva la quotidianità della vita, anche nelle sue espressioni meno nobili. E “Pagliacci” rappresenta un vero e proprio manifesto programmatico del verismo italiano, se non altro per il famoso Prologo, ove il primo baritono, rivolgendosi agli spettatori, li informa, fra l’altro, che l’autore “al vero ispiravasi“ e che udranno “piangere sì come piangono gli esseri umani”.
La strana coppia proposta dalla Fenice soddisfa più in Schoenberg che in Leoncavallo. In “Von heute auf morgen” l’equipe responsabile della parte teatrale (regia Andreas Homoki, scene Frank Philipp Schloessmann, costumi Gideon Davey, luci Franck Evin), forse per una maggiore affinità culturale con l’universo del compositore austriaco, allestisce uno spettacolo brioso e frizzante, perfettamente intonato alle intenzioni parodistiche degli autori. Sullo sfondo di quinte moderniste nere decorate dalla frase emblematica “Che cosa sono, gente moderna?” ripetuta infinite volte in bianco e in diverse lingue, i personaggi si muovono con una frenesia un po’ marionettistica, agitati dalla iperattività di chi vuole sfogare nel movimento un disagio che è percepito come una sensazione ma di cui non si riesce a comprendere razionalmente le cause.
Molto bravi e preparati tutti e quattro gli interpreti principali, con una menzione d’onore per il marito del timbratissimo baritono austriaco Georg Nigl, scioccamente irrequieto come si conviene, e per la moglie del delizioso soprano svizzero Brigitte Geller. Al loro fianco il tenore tedesco Mathias Schulz impegnato nella riuscita caricatura del cantante d’opera ed il soprano Sonia Visentin quale amica glamour.
Il direttore musicale della Fondazione Teatro La Fenice, l’israeliano Eliahu Inbal, è perfettamente a suo agio con la partitura dodecafonica di Schoenberg, la cui apparente meccanicità e ripetitività viene valorizzata quale elemento espressivo in chiave parodistica.
Meno felice, invece, la proposta di “Pagliacci”, che non riesce ad andare oltre i più scontati cliché interpretativi. E’ forse venuto il momento che quest’opera, tutt’altro che banale sul piano musicale (si pensi solo al contrasto fra i toni sovraeccitati della vicenda “reale” e quelli deliziosamente artefatti come una porcellana di Capodimonte che accompagnano lo spettacolo delle maschere) venga ristudiata a fondo nei suoi meccanismi drammatici e affrancata da quella dimensione virulenta e triviale che rischia di farne un oggetto da museo del kitsch. Non va dimenticato, infatti, che il libretto dello stesso Leoncavallo, letterato non banale e allievo di Carducci a Bologna, propone un sottile ed ambiguo rapporto fra uomo e maschera, fra vita reale e finzione scenica, che ha fatto parlare addorittura di un’anticipazione di temi pirandelliani.
Nemmeno l’allestimento e i costumi riescono a conferire originalità alla proposta della Fenice. Le scene sono quelle di Schoenberg girate in maniera da volgere il retro verso il pubblico. L’unico arredo è rappresentato da una grande pedana circolare su cui si svolge lo spettacolino dei guitti girovaghi. Il trionfo di quel minimalismo oggi imperversante negli allestimenti operistici un po’ perché fa colto e un po’ perché con i bilanci non c’è da scherzare. I costumi si segnalano per la povertà, in sintonia con le scene.
Anche la realizzazione musicale, nonostante la professionalità e l’impegno di tutti, è tale da suscitare entusiasmi. Imbal non sembra interessato a valorizzare i molteplici piani espressivi di questa singolare partitura, di cui sottolinea soprattutto, con un’enfasi sinfonica proveniente da un’altra cultura musicale, i momenti più sfogati e virulenti.
Il tenore Piero Giuliacci è un Canio onestamente tradizionale, dalla interpretazione scenica e vocale sanguigna ed estroversa, aggrappato agli acuti robusti ma un po’ vuoto nei centri, con qualche difficoltà di intonazione qua e là. Accanto a lui il glorioso baritono spagnolo Juan Pons si aggira per il palcoscenico fingendo una deformità che la statura gigantesca rende improbabile. Ma la sua maschera da clown sorride inquietante, il suo gironzolare ciondolante è minaccioso, l’interprete vocale si impone, nonostante qualche emissione un po’ tesa e forzata soprattutto nel Prologo, per l’incisività bruciante del fraseggio e la pastosità del timbro.
Il non facile personaggio di Nedda è messo a fuoco con bravura sul piano drammatico dal soprano rumeno Adina Nitescu, la cui emissione, però, patisce fin troppe asprezze soprattutto in zona acuta. Il Silvio (altro ruolo ingrato) del giovane baritono Marco Caria è promettente, il suo canto da innamorato nel duetto con Nedda offre belle sonorità emesse a fior di labbro con morbidezza e sensualità. Se riuscirà ad alleggerire ulteriormente un’emissione che risulta ancora appesantita e a liberare completamente, proiettandola verso l’esterno, una voce che appare al momento parzialmente impastoiata, l’artista potrà ottenere risultati lusinghieri. Da ultimo, va segnalato il Peppe corretto del tenore Luca Casalin, dal quale, però, ci saremmo aspettati un’emissione più leggera e trasparente, più sul fiato, nella serenata di Arlecchino.
Riferito del contributo appropriato e simpatico fornito dal coro della Fenice diretto da Claudio Marino Moretti e dai Piccoli Cantori Veneziani guidati da Diana D’Alessio, registriamo un pacato successo che ci è parso più convinto per “Von heute auf morgen” che non per “Pagliacci”.
Adolfo Andrighetti