Asterisco Informazioni di Fabrizio Stelluto

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Le acque profonde ove si bagna Sigmund Freud

27/01/2009
L’intuizione straordinaria che ha ispirato Pier Luigi Pizzi nella messa in scena di “Die tote Stadt” (La città morta) di Korngold, che ha inaugurato la stagione d’opera 2009 della Fenice, è la scelta dell’acqua come elemento unificante, sul piano concettuale ed estetico, dell’opera. E’ l’acqua atra, stagnante, di Bruges, la città morta del titolo, che, nella funebre ed elegantissima concezione di Pizzi, si riflette sul fondo della scena, creando un effetto di sospensione immota, silente. In essa si muovono i personaggi (non i principali, che rimangono all’asciutto verso il proscenio), come partoriti da quell’elemento liquido, infido ed avvolgente, e nello stesso tempo pronti ad esservi ringhiottiti, assecondando la simbologia bivalente e quindi ambigua che caratterizza l’opera di Korngold e che Pizzi coglie magistralmente. Perché l’acqua, archetipo primordiale, è sinonimo di vita ma, nello stesso tempo, è portatrice di distruzione e di morte; è l’elemento fluido per definizione, quindi non può fornire sicurezze a chi vi si affida, che lo vedrà mutare continuamente in un divenire incessante; è lo specchio in cui la realtà si moltiplica in un gioco di rifrazioni, di rimandi a doppioni immaginari, ingannevoli, come insegna il mito antico di Narciso.

E di un doppio si parla anche in “Die tote Stadt”, l’opera che il musicista austriaco di origine ceca Erich Wolfgang Korngold compose nel 1920 su di un libretto scritto da lui insieme al padre Julius, autorevole critico musicale viennese, ispirandosi al romanzo “Bruges-la-Morte” dello scrittore belga Georges Rodenbach. Vi si narra, infatti, con evidenti imprestiti dalla psicoanalisi freudiana, della ossessione di Paul per la defunta moglie Marie, alla cui memoria ha dedicato una sorta di lugubre sacrario all’interno della propria casa. Il pezzo più pregiato del reliquiario dedicato a Marie è la sua treccia biondissima, conservata con venerazione religiosa dal vedovo. Questa sorta di mausoleo sorge nella pia e immota città di Bruges, la più adatta, con la sua atmosfera pesante ed ovattata, con l’acqua ferma dei suoi canali, ad ospitare il culto malsano e claustrofobico per la donna scomparsa, ormai idealizzata come una divinità. E sarebbe stimolante poter approfondire il parallelo fra Bruges e Venezia, entrambe dono dell’acqua ed entrambe misteriosamente attratte dalle sue profondità, attraverso il confronto fra “La città morta” di Korngold e “Morte a Venezia” di Britten, che lo stesso Pizzi ha allestito lo scorso anno alla Fenice.

Ma torniamo a Paul e alla morte cui egli stesso si è condannato in vita per assecondare quella, reale, della moglie. D’improvviso, come una ventata di aria fresca ed intensamente profumata, irrompe nella sua vita una ballerina, certa Marietta, che gli sembra in tutto e per tutto la moglie rediviva. Ne è attirato, non solo per l’inspiegabile rassomiglianza con Marie, ma anche per la sua sensualità provocante e sfacciata, per il suo darsi liberamente a chi più le aggrada. Paul, in questo intreccio noir in chiave psicanalitica, la vede inconsapevolmente come la parte oscura, sconosciuta, forse inespressa della moglie, di cui non si stanca di lodare la castità e la perfezione morale; la nuova conoscenza lo turba, lo sconvolge addirittura, ma gli permetterà, alla fine, di rielaborare il lutto, come dice chi se ne intende, e di riaffiorare (di nuovo il simbolo dell’acqua...) alla vita.

Durante una sorta di violenta, allucinata avventura della mente, infatti, egli immaginerà il confronto-scontro definitivo fra le due personalità della moglie: quella ideale, che egli vede portata in processione effigiata come una Madonna, e quella sensuale, incarnata dalla ballerina Marietta. Quest’ultima prima lo seduce con la sua amoralità spensierata, quindi sfida apertamente la memoria della defunta, culto oscuro intollerabile per il suo solare vitalismo, e si abbandona ad una danza erotica e dissacrante. Al culmine del rito dionisiaco Paul strangola Marietta con la treccia appartenuta alla moglie, sconvolto da un affronto così volgarmente esplicito alla sua sensibilità di vedovo. Ma sarà proprio questo percorso interiore, questa scena sognata, immaginata e forse inconsciamente desiderata, a restituire a Paul l’equilibrio e a convincerlo ad abbandonare Bruges, la città morta, e con essa i propri funerei rimpianti.

Pier Luigi Pizzi, come si accennava, coglie con geniale intuizione la cifra non solo concettuale ma anche teatrale del lavoro di Korngold, identificandola con l’acqua, che utilizza con effetti visivi colmi di una suggestione struggente, di una melanconia immota e straziante da incubo metafisico. Questa visione silenziosamente lugubre occupa il fondo della scena, quando non è occultata da ampie cortine nere lunghe fino a terra, mentre la parte anteriore del palcoscenico rappresenta l’abitazione di Paul e il sacrario dedicato a Marie, con l’immagine di lei a grandezza naturale e tutti gli oggetti di arredamento rigorosamente neri, con l’unica eccezione del candore dei fiori.

All’interno di questa cornice così elegantemente evocativa si muovono con impegno e professionalità ma con esiti perfettibili il Paul del tenore tedesco Stefan Vinke e la Marietta del soprano norvegese Solveig Kringelborn. Il primo è un classico heldentenor che si è formato sui ruoli wagneriani; dedica al suo difficilissimo personaggio gli accenti e gli atteggiamenti appropriati, ma anche un’emissione talvolta poco controllata, con suoni non sempre impeccabili per intonazione. Più quadrata vocalmente e corretta sul piano drammatico la Marietta della Kringelborn, ma il personaggio richiederebbe, almeno per orecchie latine, un canto più morbido, meno aspro, oltre ad una sensualità più accesa. Molto bene si sono disimpegnati il baritono tedesco Stephan Genz, che interpreta con voce timbrata e sicurezza sulla scena Frank, l’amico di Paul, cioè la sua parte razionale e positiva, nonché il mezzosoprano, anch’esso tedesco, Christa Mayer, quasi perfetta per aplomb scenico e resa vocale nel ruolo di Brigitta, la monacale governante di Paul e fedele custode delle sue memorie di vedovo.

Positivo l’apporto degli altri interpreti (Eleonore Marguerre, Julia Oesch, Gino Potente, Shi Yijie, Mathias Schulz) così come quello del coro della Fenice diretto da Claudio Marino Moretti e del coro di voci bianche Piccoli Cantori Veneziani guidato da Diana D’Alessio.

La musica di Korngold, così vitale e piacevole, trova sul podio un esecutore diligente e sicuro in Eliahu Inbal, cui si richiederebbe solo una sensibilità ancora più attenta nel rendere al meglio la varietà di colori e di dinamiche della partitura. Si tratta, infatti, di una musica molto varia se non eclettica, che combina, con abilità tecnica e accentuata capacità comunicativa, suggestioni che provengono ora da Puccini, ora dalla giovane scuola italiana, ora da Wagner. Il musicista la compose quando aveva solo 23 anni e di una giovinezza ricca di talento e di riconoscimenti già acquisiti possiede tutta la brillantezza e la vitalità. Fin troppa, verrebbe da osservare, per una storia così cupa, che richiederebbe una musica meno sana, più straziata, in grado di esprimere le ragioni più profonde del dramma interiore di Paul, la lacerazione che vive fra reale ed ideale, fra realtà e sogno. Ma non è questa la musa ispiratrice di Korngold, che non per niente ottenne grandi successi a Hollywood, ove riparò per sfuggire alla persecuzione nazista, componendo colonne sonore per i film di azione interpretati fra gli altri anche da Errol Flynn. La sua musica, così orecchiabile e gradevole, dallo strumentale ricco di timbri e di colori, può raccontare dall’esterno una vicenda così cerebrale, eccessiva e parossistica, non coglierla dall’interno in tutta la sua inquietudine.

Al termine della rappresentazione domenicale cui si riferiscono queste note, applausi di stima da parte di un pubblico coinvolto ma forse un po’ sconcertato dalla novità della proposta.

Adolfo Andrighetti

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