Un “Lucio Silla” fra note dolenti e note sublimi
Tutto questo si è potuto capire alla Fenice, nonostante l’opera fosse nota fino ad ora solo ai musicologi e comparisse per la prima volta sulle scene del teatro veneziano, grazie ad una realizzazione musicale di prim’ordine. Onore al merito, quindi, al direttore d’orchestra, il giovane moravo Tomas Netopil, dal gesto chiaro ed espressivo, che ha saputo dare sicurezza ai cantanti, tutti, chi più chi meno, protagonisti di prove eccellenti, e farli respirare insieme all’orchestra. Il suo è un Mozart efficace e convincente, cui manca solo, almeno in certi momenti, una maggiore varietà di tinte per essere completo.
Sul palcoscenico si è esibita una compagnia di alto livello, che ha trovato la sua punta di diamante nella Giunia seducente, dolcissima e insieme impeccabile sul piano musicale, di Annick Massis. Il soprano francese, già noto al pubblico della Fenice per le eccellenti prove fornite ne “I pescatori di perle” di Bizet e ne “La Juive” di Halevy, ha superato se stessa, affrontando il personaggio, di grande impegno sia sul piano vocale sia su quello drammatico, con la sicurezza che deriva dalla preparazione musicale e dal possesso di una tecnica vocale senza mende, sapendo utilizzare a fini espressivi ogni nota affidatale, compresi i vertiginosi abbellimenti. Le è stato pari nella sicurezza tecnica e nella resa espressiva il mezzosoprano Monica Bacelli, un Cecilio che, con Giunia, ha dato vita ad una coppia di amanti incantevole per la capacità di padroneggiare a fini drammatici la frase musicale, che, mentre viene rispettata ed anzi esaltata sul piano sonoro, diventa veicolo di emozioni e sentimenti autenticamente umani.
Nella parte del dittatore Lucio Silla, il tenore italo -tedesco Roberto Saccà ha privilegiato, come da sua impostazione vocale, una fonazione robusta e tagliente che non guasta al personaggio, sgradevole ed aggressivo, anche se una maggiore morbidezza e sonorità meno metalliche non avrebbero guastato.
Più che positivo, senza entrare in minuzie da Beckmesser, l’apporto del soprano argentino Veronica Cangemi come Lucio Cinna, l’amico fraterno di Cecilio, molto sicura sul piano musicale e pienamente coinvolta nel gioco scenico. Ottimo Aufidio, braccio destro di Silla, il tenore Stefano Ferrari, per gradevolezza di timbro e sicurezza negli abbellimenti. Incantevole, per freschezza e luminosità vocale, oltre che per appropriatezza di accenti, la Celia, fida sorella di Silla e innamorata di Lucio Cinna, del soprano tedesco Julia Kleiter.
Questa festa musicale, quest’affermazione evidente e quasi trionfante della verità artistica che si impone come espressione della Verità senza aggettivi, questa esperienza commovente di un incontro con una bellezza che ha in sé risonanze ed echi di assoluto, è stata purtroppo avvilita da un allestimento sbagliato, figlio presumibilmente del desiderio, frequente nei registi tedeschi come Jurgen Flimm, di stupire e trasgredire senza disporre di idee valide.
Ben poco di ciò che si è visto in scena, infatti, è apparso in sintonia con la drammaturgia musicale mozartiana e la sua sublime limpidezza, a cominciare dal continuo e talvolta confuso movimento di ballerini e figuranti. I costumi di Birgit Hutter, poi, per i protagonisti presentano un minimo di coerenza stilistica potendosi far risalire all’epoca napoleonica, mentre per tutti gli altri sembrano solo un’accozzaglia di stracci più o meno variopinti.
Inoltre, se l’unica struttura scenica, una facciata di ispirazione neoclassica che di tanto in tanto ruota su se stessa mostrando sul retro delle impalcature da lavori in corso, dovuta a Christian Bussmann, presenta una sua funzionalità, altrettanto non si può dire per la luce grigia, plumbea, necrofila, che regna sempre sul palcoscenico. Questa, infatti, sembra negare, con la sua cupezza, l’universo limpido e luminoso che ci offre Mozart, la cui cultura non conosce ancora l’angoscia esistenziale e la vertigine di chi si affaccia sul vuoto tipiche del novecento, ma riconduce anche il dramma all’interno di una visione ove regnano l’ordine e l’equilibrio creati dalle armoniose proporzioni neoclassiche.
Né, per le stesse ragioni, sono accettabili i movimenti ispirati ad iperrealismo imposti ai cantanti, spinti, per questa strada, a sfidare il ridicolo. Il tentativo di violenza di Lucio Silla su Giunia, la donna da lui invano concupita, non è che uno dei tanti esempi che si potrebbero portare in questo senso. In effetti, la strada della aggressività espressionista nella ricostruzione dell’universo mozartiano, ove i sentimenti sono formulati con una passionalità che non esce mai da una sublime compostezza di forme, è fuorviante e può arrivare ai limiti del grottesco, in quanto utilizza, per esprimere un mondo culturale ed artistico ancora teso alla ricerca di una bellezza e di un equilibrio superiori, scelte teatrali che ne sono la negazione.
Particolarmente discutibile sul piano culturale, poi, è la scelta di evitare il lieto fine attribuito dal librettista Giovanni de Gamerra alla vicenda, che si conclude con un Lucio Silla che, da tiranno sanguinario e dispotico, si presenta come sovrano illuminato, capace di usare il suo potere per riportare i rapporti umani al loro naturale equilibrio, anziché per destabilizzarli come aveva fatto in precedenza. Questo tipo di finale, infatti, anche se può sembrare artificioso e forzato ai nostri occhi, appartiene però alla concezione del potere come esercizio di un servizio lungimirante e benevolo nei confronti dei sudditi, cara all’Illuminismo e che troverà espressione ancora più compiuta nel protagonista de “La clemenza di Tito”. Attribuire, invece, la conversione di Lucio Silla, come si è visto alla Fenice, alla costrizione esercitata su di lui dalla violenza dei congiurati, che poi lo uccidono, significa negare la base filosofica su cui si fonda la vicenda, strapparla dalle sue radici culturali e quindi renderla incomprensibile.
Adolfo Andrighetti