Romeo e Giulietta nella discoteca del signor Gounod
Prima della sua definizione letteraria, tuttavia, abbiamo poco o nulla. Nulla, in particolare, che, con un minimo di attendibilità storica, dia sostanza alla suggestiva possibilità che i due ragazzi siano esistiti veramente. Del resto, non ha nessuna importanza. Qui la fedeltà della cronaca deve cedere il passo alla verità dell’arte, che sa cogliere e rappresentare il mistero dell’umano con un’evidenza che lo rende universale e lo consegna, perfetto ed intangibile nella sua struggente sostanza, alla eternità.
Charles Gounoud si accosta a questo materiale, così stimolante per un artista ma anche così insidioso per l’esigenza di tenere alta l’ispirazione in maniera che non tradisca la sublime matrice shakespeariana, con grande entusiasmo e forte del successo ottenuto nel 1859 con il “Faust”. Prima di lui numerosissimi musicisti ebbero il coraggio di avvicinare i due adolescenti veronesi per rappresentare la loro straziante vicenda. Fra gli esiti più felici ricorderemo almeno quelli di Niccolò Zingarelli (1796), di Nicola Vaccai (1825) e di Vincenzo Bellini (1830). Dopo Gounod non va trascurato Riccardo Zandonai (1922).
La creatura del compositore francese è in scena al teatro La Fenice nella versione del 1888, quella predisposta per l’Opera di Parigi e quindi con le parti parlate trasformate in recitativi, mentre si è preferito omettere il balletto. Nonostante l’immediato successo di pubblico da cui fu gratificata e l’impegno di fedeltà a Shakespeare mantenuto dai due librettisti Jules Barbier e Michel Carré, nasce gracile, povera di sani e robusti ormoni musicali. La vena del compositore per almeno tre atti non sembra andare oltre una convenzionalità forse elegante ma anche fragile, carente di autentica creatività e di un sincero sentimento drammatico. La temperatura emotiva si alza nel IV e nel V atto, in corrispondenza dei momenti forti del dramma. Qui Gounod, che pure non viveva con distacco ma anzi con autentica sofferenza la fatica della creazione artistica, abbandona la sua apparente freddezza per donarci qualche momento musicalmente più intenso e vibrante. Ma nell’insieme l’opera resta lontana, con la sua delicata ma pallida atmosfera sentimentale, dall’impegnativo modello shakespeariano, rispetto al quale dà la sensazione di un tè leggero e molto zuccherato a confronto con un amarone d’annata.
La regia dello spettacolo è stata affidata al trentenne veneziano Damiano Michieletto, enfant prodige delle scene liriche, che ha già dato prova di una creatività di ottima lega gratificata anche dal riconoscimento del premio Abbiati 2008 per la sua Gazza ladra al festival Rossini di Pesaro. L’impatto fra la convenzionalità dell’universo artistico di Gounod e la sovrabbondante fantasia del giovane regista poteva rivelarsi dirompente. E tale si è rivelato, di fatto. Michieletto ha scelto la strada di un’attualizzazione senza freni, che non teme gli effetti estremi ed esasperati. Ha ambientato la vicenda degli amanti veronesi in una discoteca di tendenza, ove Capuleti e Montecchi si fronteggiano come due bande rivali del sottobosco giovanile, di una delle quali fa parte Romeo con le sue treccine rasta, dell’altra Giulietta, dalla chioma vistosamente colorata in rosso evidenziatore. L’idea non è freschissima, dal momento che, per restare solo al teatro in musica, già l’aveva adottata Leonard Bernstein, che, nel suo West Side Story, aveva ambientato la storia di Giulietta e Romeo fra le strade di New York. Tuttavia non vi è dubbio che l’energia evocatrice di Michieletto, la sua vitalistica visionarietà, ce la restituiscono come nuova.
Inoltre il regista è molto ben servito dal suo abituale collaboratore Paolo Fantin, che gli mette a disposizione una scenografia perfetta e dal light designer Fabio Barettin. Il palcoscenico è completamente occupato dal piatto di un giradischi con tanto di braccio gigantesco e, a partire dal quarto atto, di un enorme paio di cuffie, che saranno prima l’alcova e poi la tomba dei due amanti. Il movimento rotatorio del piatto, poi, è abilmente ed anche poeticamente utilizzato per alcuni effetti di allontanamento, come quando Giulietta lascia Romeo alla fine del primo atto o entrambi abbandonano la vita alla conclusione dell’opera. Questa rotazione che allontana ed esclude richiama l’immagine del grande disco di vinile che compare sul sipario frangivento prima che la rappresentazione abbia inizio e sul quale vengono proiettati prima il titolo dell’opera e il nome del suo autore, poi le parole cantate dal coro introduttivo, che commenta dall’esterno la vicenda anticipandone la conclusione come un coro da tragedia greca. Il disco diventa così, ad onta dell’aggressiva attualizzazione operata dal regista, il vero punto di riferimento concettuale della sua messa in scena: con quel ruotare continuo, monotono, quasi fatale, su se stesso, il disco di vinile è il simbolo della vicenda dei due ragazzi veronesi e di ogni vicenda umana, che si snoda un giro dopo l’altro, quasi preda di un ripetitivo movimento circolare, fino all’inevitabile conclusione. Un simbolo pessimista, che ci racconta dell’inanità delle passioni umane, compresa quella che ha unito Giulietta e Romeo, condannate ad avvilupparsi su se stesse, chiuse nella loro circolarità autoreferenziale, fino alla fine. E a poco vale che dal ruotare del disco scaturisca, grazie alla puntina, un universo di suoni, colori ed emozioni che sono la vita stessa, se poi tutto il fuoco d’artificio è destinato a spegnersi nel nulla, senza sapere perché è cominciato e perché si deve concludere così, in un enorme punto interrogativo.
Per ritornare allo spettacolo nel suo insieme, ci si deve porre una domanda che il cosiddetto teatro di regia suscita sempre più spesso: che cosa ha a che fare la brillante messa in scena di Michieletto e dei suoi collaboratori con Gounod? E, in altri termini, che rapporto c’è fra la parte visiva dello spettacolo e quella auditiva, fra ciò che si vede e ciò che si sente? In effetti l’attualizzazione volutamente aggressiva ed estremista della vicenda di Romeo e Giulietta vista sul palcoscenico della Fenice è agli antipodi della concezione drammaturgica e musicale del musicista francese, impastata di un sentimentalismo manierato e zuccheroso, anche se talvolta elegante, di cui rischia spesso di essere non un’interpretazione, ma un commento esasperato e grottesco, quasi una parodia. Per portare un esempio fra i tanti, pensiamo alla scena iniziale della festa, ove ragazzi e ragazze si dimenano fra luci psichedeliche al ritmo non di una disco music ma delle note tutt’altro che trasgressive di Gounod. E’ ovvio, si può non credere a questo Gounod: ma è giusto, per questa ragione, farne la caricatura?
Eppure, proprio in questa occasione, ove sembra avere mancato il bersaglio e chiudersi in una sorta di autosufficienza artistica impermeabile a musica e libretto, Michieletto dà una prova definitiva del suo talento. Il regista veneziano, infatti, dà vita ad uno spettacolo che si regge su gambe solidissime, organizzato in ogni suo aspetto, dove tutti sanno, singoli e masse, quello che devono fare e lo fanno con ammirevole prontezza ed efficacia. Tutto è curato con attenzione sin nei minimi particolari, non si avvertono mai momenti di stanca o vuoti di idee. Inoltre il lavoro sui diversi personaggi, che ormai pochi registi d’opera sanno o vogliono fare con l’impegno e l’inventiva dovuti, è quasi esaltante: ad ognuno è insufflata un’anima, poco importa se non sempre gradevole o edificante; ognuno è un carattere a sé, ben delineato e distinto dagli altri, grazie anche agli eccellenti costumi di Carla Teti.
E la musica? Era affidata prima di tutti al maestro Carlo Montanaro, che ha garantito l’aplomb fra buca e palcoscenico. E’ parso, però, leggere Gounod come fosse un autore del romanticismo italiano, non evitando enfasi e ridondanze laddove sarebbe stata preferibile un’ulteriore ricerca delle nuances e della trasparenza: l’unica via, forse, per conferire personalità ad una musica che di per sé ne possiede pochina. Anche il coro, diretto da Claudio Marino Moretti, molto impegnato nel corso dell’opera e sempre all’altezza, è sembrato inturgidire il suono e sottolineare i momenti di maggiore emotività.
Montanaro, poi, ha avuto la fortuna di potersi avvalere di una compagnia di canto che ha coperto i ruoli principali in maniera eccellente. Il giovane tenore statunitense Eric Cutler non ha fatto rimpiangere il celebre Jonas Kaufmann, che ha dato forfait a causa di un infortunio gettando nella costernazione i vociofili come me, e ha delineato un Romeo credibile sul piano scenico e capace di fraseggiare con eleganza e senso dello stile. La voce, poi, che non parrebbe privilegiata dalla natura per timbro e risonanza, si dimostra, invece, capace di “correre” per il teatro e di squillare non appena viene proiettata correttamente e non lasciata nella gola, il che avviene sempre più spesso e con esiti veramente apprezzabili con il prosieguo dello spettacolo. La sua Giulietta è il delizioso soprano georgiano Nino Machaidze, quasi perfetta per una sensibile immedesimazione nella parte che le è permessa non solo dalla grazia dei suoi 26 anni ma anche da un temperamento artistico già maturo. Indimenticabili certi suoi atteggiamenti sulla scena, dovuti certo all’intuizione del regista ma anche alla sensibilità dell’interprete, come il bamboleggiare da ragazzina nel primo atto e, all’opposto, quel brancicare commovente le mani ed il corpo di Romeo morente con cui la donna innamorata cerca di trasmettergli un po’ di calore. Il fraseggio, tuttavia, può essere ulteriormente raffinato e la voce deve sviluppare una maggiore rotondità e morbidezza, rimediando a qualche asprezza, a qualche spigolosità, soprattutto in alto. Per soffermarmi solo sui ruoli principali del nutrito cast, di straordinario impatto scenico e vocale il Mercutio del famoso baritono tedesco Markus Werba; felicissima l’interpretazione data dal mezzosoprano georgiano Ketevan Kemoklidze della ballata di Stéphano, ruolo en travesti; credibile e vocalmente sicuro il Frère Laurent del basso Giorgio Giuseppini; affidabile ma troppo stentoreo il Capulet del basso-baritono Luca Dall’Amico; stilisticamente corretto ma un po’ flebile il Tybalt del tenore argentino Juan Francisco Gatell.
Alla recita pomeridiana cui si riferiscono queste note è stato tributato un successo molto caloroso.
Adolfo Andrighetti