Alla Fenice due primedonne in un labirinto
Il nucleo drammatico, tratto dall’omonima tragedia di Schiller, è costituito, infatti, dal duello fra due figure di potente personalità ed elevatissimo rango: Elisabetta I^, anglicana regina d’Inghilterra, che, corre l’anno 1587, tiene imprigionata, con l’accusa di tramare con i cattolici per conquistare il trono, la cugina Mary Stuart (Maria Stuarda), sovrana di Scozia. Quest’ultima, nel libretto steso dal diciassettenne studente di legge Giuseppe Bardari, nonostante la sua condizione di reclusa, seguita ad esasperare la gelosia di Elisabetta affascinando con la sua grazia chi ha occasione di avvicinarla.
Ma la regina d’Inghilterra ha ragioni assai concrete per detestare la rivale più charmant. Di Maria, infatti, si è innamorato il conte di Leicester, a sua volta amato da Elisabetta. Il poveretto, stretto fra due personalità femminili così ingombranti -l’inglese manifestamente fiera ed intemperante, la scozzese gonfia di orgoglio nonostante la sua condizione di prigioniera e classica “bronsa cuerta”- cerca invano di riavvicinarle per ottenere così la liberazione di Maria. Il colloquio di riconciliazione, faticosamente preparato, si risolve in un disastro: Elisabetta umilia ed insulta Maria, che rincara la dose. Non c’è possibilità di intesa fra due primedonne che il destino ha posto l’una di fronte all’altra, per cui l’inevitabile scioglimento dell'irriducibile rivalità sarà la condanna a morte della regina di Scozia. La quale, però, nonostante il supplizio ed anzi grazie ad esso, risulterà vincitrice dello scontro: perché, in questo modo, rende palese la debolezza di Elisabetta, incapace di prevalere su di una rivale in carcere senza sopprimerla; ma, prima ancora, perché, dopo la condanna a morte, affronta un percorso di purificazione interiore che la porta a riconoscere le proprie colpe passate, per poi, luminosa della riacquistata innocenza, perdonare davanti al patibolo la sua persecutrice e mettere così a segno un affondo che la livorosa regina d’Inghilterra non può parare.
La rivalità femminile, giocata su sottili equilibri pronti a trascolorare imprevedibilmente da uno stato d’animo all’altro, trova in quest’opera (merito del giovanissimo Bardari e del compositore,che è probabile gli abbia dato una mano) una descrizione che conosce il senso della sfumatura rispetto ad altri libretti,ove il poeta, com’era chiamato nell’ottocento, tende a sgrossare con l’accetta la psicologia dei personaggi. Qui, invece, vediamo il disagio di Elisabetta verso Maria crescere sempre più fino a diventare odio, eppure stemperarsi in un momento di dubbio, di fragilità, quando la regina d’Inghilterra è sollecitata a firmare la condanna a morte della cugina. E com’è umanamente autentico, in occasione dell’incontro-scontro fra le due nel II atto, il mutare di sentimenti nell’animo di Maria: dalla prima risoluzione, faticosamente raggiunta per l’insistenza di Leicester, di mantenere un atteggiamento sottomesso nei confronti di Elisabetta, al sofferto autocontrollo di fronte alle prime insinuazioni di questa sulla moralità della rivale e all’esplosione dell’ira fino a quel punto trattenuta, con espressioni alquanto inconsuete nei libretti d’opera romantici (“vil bastarda”, perché Elisabetta era nata fuori del matrimonio da Anna Bolena, “meretrice abbietta e oscena” ecc.) eppure del tutto credibili in una donna altera che è stata offesa nell’intimo.
Va riconosciuto, però, che la musica, nonostante le sue qualità ed anzi forse proprio a causa di queste, non sembra corrispondere fino in fondo alle esigenze di un dramma così infuocato. Il dolce e a tratti soave melodizzare di Donizetti, impreziosito dalla consueta patina malinconica, non suona sempre ispirato; e anche quando lo è, come nelle estatiche espressioni di Maria che precedono l’esecuzione, l’impressione è che il compositore tenda ad annacquare le tinte del dramma, diluendole in un pastello troppo etereo laddove si richiederebbero toni più corposi e contrastati.
Il coté soavemente liederistico di questo Donizetti, suo limite e nello stesso tempo sua cifra stilistica identificativa, non è stato sufficientemente valorizzato alla Fenice, ove il direttore e concertatore, Fabrizio Maria Carminati, e la protagonista, il famoso soprano friulano Fiorenza Cedolins, ce l’hanno restituito in chiave preverdiana, dandone un’interpretazione certo discutibile ma non rifiutabile a priori. Così Carminati, serrando i tempi e accentuando le dinamiche, cerca la tensione drammatica nelle arcate melodiche di “Maria Stuarda” fino a farla assomigliare ad un’opera del primo Verdi, leggendola come anticipazione di un romanticismo più maturo. Su questa linea si inserisce anche il coro, robustamente compatto, diretto da Claudio Marino Moretti.
Fiorenza Cedolins, a sua volta, dopo aver raggiunto esiti artistici di eccellenza nel repertorio verdiano e pucciniano, ha avvertito il fascino (e come darle torto?) delle sublimi eroine donizettiane. Certo è che il suo strumento sontuoso ed imponente, dalle risonanze tebaldiane, la obbliga a sacrificare gli aspetti più eterei e ripiegati del personaggio per valorizzarne i momenti estroversi e drammatici, in cui si ammirano il timbro pieno e vellutato, la potenza e la risonanza di una voce privilegiata, lo scavo della parola drammatica. Altrove, nei momenti più squisitamente belcantistici, si avverte, invece, lo studio con cui uno strumento possente e peraltro magistralmente controllato viene piegato al canto di agilità; e i suoni sono sempre fin troppo corposi anche quando dovrebbero echeggiare trasparenti e liquidi. Inoltre, gli estremi acuti suonano forzati e un po’ sordi. La classe superiore dell’artista è comunque apprezzabile in ogni momento della sua performance, nell’inappuntabile padronanza del ruolo come nella elegante presenza sulla scena.
Accanto a lei, una lode incondizionata va riservata alla sua rivale, l’Elisabetta del mezzosoprano Sonia Ganassi, belcantista autentica e padrona del canto donizettiano in tutte le sue sfumature tecniche ed interpretative, nonostante uno strumento di volume limitato. Il Leicester del tenore spagnolo José Bros si segnala per il timbro preziosamente androgino, particolarmente adatto per un personaggio che ha tutte le goffaggini e le ingenuità di un adolescente; in certi momenti, tuttavia, più spessore vocale, più polpa, sarebbero necessari. Del tutto a posto le due voci gravi: il Cecil del baritono Marco Caria, cui si richiederebbe solo uno sforzo in più nello sfumare le dinamiche; e soprattutto il Talbot del basso Mirco Palazzi, molto apprezzato nel repertorio barocco, che qui fa valere rotondità e morbidezza di emissione, oltre che un’impeccabile linea di canto.
Dello spettacolo nella sua interezza (regia, scene, costumi, luci) si è fatto carico il franco-italiano Denis Krief, che si è assunto la responsabilità di una messa in scena raggelata e devitalizzata come il mondo artificiale di un acquario, i cui abitanti girano su se stessi e intorno agli elementi che ne compongono l’ambiente ripetendo all’infinito i medesimi movimenti. E come pesci in un acquario i protagonisti della Maria Stuarda sono costretti a pochi e ripetitivi spostamenti all’interno del labirinto di parallelepipedi immaginato da Krief: una scelta che paralizza ogni tensione drammatica e annichilisce la verità dei sentimenti umani, rendendo più attendibile e rispettosa della poetica donizettiana una versione dell’opera in forma di concerto. Le luci, che si accendono ora bianche, ora gialle o verdi o rosse, ad illuminare tutta la scena, accentuano con la loro fissità, anziché attenuarla, la sensazione di un universo raggelato ed artificiale.
Certo, il regista lo ha spiegato: il labirinto in scena simboleggia la tortuosità del mondo emotivo in cui vivono i personaggi della Maria Stuarda e la loro incapacità di comunicare. Ma registi e scenografi non sono dei pensatori astratti. Sono degli uomini di teatro, chiamati a tradurre delle idee in una realtà viva. Non possono, quindi, appagarsi di un’intuizione azzeccata, ma devono realizzarla sul palcoscenico in un modo convincente sul piano estetico, drammaturgico, teatrale in una parola. Tanto per portare un esempio, quando Luca Ronconi, in occasione di una messa in scena di “Don Carlo” di Verdi alla Scala, comunicò che al centro della sua concezione registica vi sarebbe stata l’idea della morte, fece un’affermazione condivisibile, nemmeno tanto originale, ma comunque insignificante fino a quando non si trasformò in spettacolo. Certo, si può anche non avere idee o averle sbagliate, e allora l’esito registico non potrà che essere negativo. Ma lo stesso risultato attende quelle regie che sembrano accontentarsi del sostrato concettuale del loro lavoro e non riescono a tradurlo in scelte teatrali convincenti.
Alla recita cui si riferiscono queste note, successo intenso (ma non entusiastico) per tutti e dissensi (meritati) all’apparire del regista.
Adolfo Andrighetti