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Madama Butterfly: i sogni muoiono all’alba

25/05/2009
Per dirla a quella maniera americana che lei tanto amava, “Madama Butterfly” di Giacomo Puccini è veramente un “one woman show”. Al centro della vicenda c’è solo la geisha, sempre la geisha, una stella fissa dalla quale assorbono luce e valenza drammatica gli altri personaggi che le ruotano attorno come satelliti e la cui funzione è quella di esaltare la straordinaria personalità della protagonista: l’insulso Pinkerton, concentrato di infantilismo tracotante attratto dall’eros acerbo ed esotico; Sharpless, console USA a Nagasaki, buon uomo ma privo di attributi; la cameriera-confidente Suzuki, che incarna la componente realistica e disincantata di Butterfly, presto messa a tacere da quella sublimemente visionaria; il mezzano Goro, viscido come gli impone il mestiere. Tutti dei fantasmi, che acquistano vita quando Butterfly li accosta; perché nella ragazza giapponese e nel suo piccolo sogno d’amore si concentra con densità magmatica la vita incandescente di passione e di sofferenza: gli altri possono assistere solo dall’esterno e con tremore sbigottito al compiersi doloroso di una tale pienezza esistenziale.

In Butterfly, infatti, l’adamantina virtù della fedeltà, oggi così poco trendy in tutte le sue varie accezioni, diventa vocazione più importante della stessa vita fisica: è fedeltà al suo amore ed alla sua scelta coniugale, in primo luogo, che le conferisce una forza interiore incrollabile di fronte al crescendo dei disinganni; ma fedeltà anche al suo “american dream”, alla visione da ragazzina che ha coltivato dentro di sé di un modo di vita più libero, più franco, più colorato, di quello che cultura e tradizione giapponesi potrebbero permetterle. E’ fedeltà a se stessa, alla fine, alle sue aspirazioni: così belle e così assolute che, se vengono annichilite dalla realtà, la vita non ha più senso.

Giacomo Puccini, con Butterfly, andava sul sicuro. La giovanissima geisha, comparsa per la prima volta in una novella dello scrittore USA John Luther Long, aveva già dimostrato, nella trasposizione teatrale che ne aveva tratto il commediografo David Belasco, di possedere tutto il carisma necessario per vincere e convincere anche sul palcoscenico. Inoltre, un personaggio femminile così emotivamente esposto, vittima sacrificale dell’altrui abulia sentimentale, era particolarmente congeniale a Puccini, il cui sguardo di uomo e d’artista diventava particolarmente acuto nello scandagliare l’universo psicologico della donna e nell’interpretarne la sottile e imprevedibile sensibilità.

Ciò nonostante, alla prima della Scala (1904) fu un fiasco. Il compositore si rifece e con gli interessi solo tre mesi dopo a Brescia, dove fu trionfo, dopo aver apportato diverse modifiche, che non furono però le ultime, ad una partitura fra le più tormentate del teatro d’opera moderno. Una partitura geniale, però, dalla tinta inconfondibile ed affascinante; un tessuto sonoro screziato di innumerevoli sfumature di colore eppure dalla trama compatta, alla cui realizzazione convergono almeno tre elementi fondamentali: il gusto del comporre per raffinati frammenti sonori, per delicate allusioni tematiche, che Puccini, musicista colto e sempre informato sulle più recenti acquisizioni della sua arte, importa dall’impressionismo di Debussy, del quale nel 1902 si era rappresentato “Pelleas et Melisande”; la ricerca di particolari sonorità orientaleggianti, frutto di una meticolosa ricerca del compositore oltre che della sua creatività; l’incomparabile vena melodica di scuola italiana, che, innestata in una struttura armonica e strumentale di matrice europea, crea, in questa come in altre opere di Puccini, un amalgama sonoro di fascino irresistibile.

Ma alla Fenice, ove in questi giorni si dà la Butterfly per la direzione-concertazione di Nicola Luisotti e la regia di Daniele Abbado, che cosa si è visto e sentito? Per prima cosa va registrata la singolare sintonia di intenti artistici che si è realizzata fra i responsabili teatrali e musicali dello spettacolo, il cui lavoro, ognuno ovviamente per quanto di competenza, ha ridotto all’osso la Butterfly, liberandola dagli ornamenti e dalle decorazioni per esaltarne l’incandescente nucleo drammatico. L’operazione riesce in pieno sul piano teatrale, grazie alla scelta operata da Abbado e Graziano Gregori di una scenografia astratta ed asettica: una stanza quadrata completamente spoglia, movimentata di tanto in tanto dallo scorrere di qualche parete mobile ed illuminata dall’ottimo gioco di luci, vario e suggestivo, studiato da Valerio Alfieri. Questa struttura di geometrica linearità consegna la vicenda, nonostante i costumi ispirati alla tradizione di Carla Teti, ad una dimensione atemporale assolutamente efficace per liberare il dramma da ogni orpello esornativo e metterne a fuoco la reale natura, che è mentale, anzi psicologica. Al bando, quindi, ogni accenno critico alla cultura americana o a quella giapponese; del tutto irrilevanti i tocchi di colore legati all’ambientazione orientaleggiante. Al centro, invece, come sotto un metaforico ed implacabile occhio di bue, ciò che interessava anche a Puccini: il drammatico percorso interiore di una ragazza che si è costruita mentalmente un castello incantato e lo tiene in piedi contro ogni evidenza fino all’inevitabile crollo finale. Quindi, nonostante la caratterizzazione teatrale dei personaggi non vada oltre la routine e anzi porti Butterfly a qualche atteggiamento sin troppo enfatico da diva del cinema muto, lo spettacolo nel suo insieme convince pienamente.

Anche Nicola Luisotti sembra voler puntare all’essenziale, ma con risultati più controversi. Sin dalle prime battute aggredisce la partitura con dinamiche fin troppo energiche, tempi molto sostenuti e, soprattutto, un gusto singolare per le sonorità scabre e taglienti, i colori lividi, evidenziando la crudezza e anche la sgradevolezza del dramma. Il risultato è un’interpretazione coerente ma univoca, che stende sulle infinite screziature cromatiche volute da Puccini una tinta cruda, violenta: una scelta che legge Madama Butterfly in chiave espressionista, consegnandola ad un novecento musicale ancora di là da venire. Una parte del pubblico non ha gradito.

Tutti, invece, hanno gradito l’entusiasmante Butterfly del soprano Micaela Carosi, voce torrenziale come non se ne sentono più ma anche voce piena, rotonda, di bel timbro, omogenea in tutta la gamma ed emessa sempre senza forzature, capace di travolgere nei momenti di maggiore intensità drammatica come di porgere con fluidità e morbidezza nel canto di conversazione. La fraseggiatrice, poi, è di prima classe: accurata, attenta, non butta via una frase e anzi raggiunge spesso livelli espressivi di valore assoluto. A lei l’entusiasmo del pubblico e quello dell’estensore delle presenti note.

Intorno alla regina ha agito un corteggio di ottimi professionisti, a cominciare dalla Suzuki del mezzosoprano Rossana Rinaldi, timbro caldo e morbido, intonazione impeccabile. Il Pinkerton di Massimiliano Pisapia esibisce una tenorilità franca e squillante in acuto che ben si addice al vacuo gallismo del personaggio. Lo Sharpless di Gabriele Viviani, dalla schietta vocazione baritonale espressa da un timbro bello e pastoso, sarebbe l’ideale se riuscisse ad alleggerire più spesso l’emissione e la piegasse ad un fraseggio ancora più vario ed espressivo. Apprezzabile, via via che ha acquistato sicurezza scaldando la voce, il Goro del tenore Bruno Lazzaretti. Appropriate tutte le altre figure di contorno. Molto applaudito, dopo l’impeccabile esecuzione del celebre pezzo a bocca chiusa, il coro della Fenice diretto da Claudio Marino Moretti

Alla domenicale cui si riferiscono queste note successo molto caldo con note di entusiasmo per Micaela Carosi e qualche dissenso per Luisotti.

Adolfo Andrighetti

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