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Asterisco Informazioni di Fabrizio Stelluto

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Macchè crepuscolo, questa è la perenne alba dell’arte

30/06/2009
Dopo “Die Walküre” del 2006 e “Siegfried” del 2007, La Fenice prosegue la felice proposta del “Ring des Nibelungen” con la direzione-concertazione di Jeffrey Tate e la regia di Robert Carsen, mettendo in scena l’ultimo atto dell’immensa saga wagneriana: Götterdämmerung, Il crepuscolo degli dei.

E’ un epilogo dal carattere squisitamente umano, in cui dei e nibelunghi diventano delle presenze evanescenti votate al dissolvimento. Gli eroi, a loro volta, ed in particolare Siegfried, non si dimostrano all’altezza della missione loro affidata da Wotan di ricostituire l’equilibrio primordiale dell’universo e le loro virtù cavalleresche si rivelano impotenti di fronte all’astuzia fraudolenta di Hagen, il figlio del nibelungo Alberich, simbolo stesso dell’odio. Né si può chiedere agli uomini ciò in cui razze più elette hanno fallito: anch’essi finiranno per affrettare inconsapevolmente quella conclusione cui l’universo è ormai destinato.

Siamo, infatti, alla fine della saga; il mondo del molteplice, nato dal furto dell’oro del Reno e dalla maledizione dell’amore perpetrati da Alberich, ha ormai esaurito il proprio ciclo, l’innocenza primordiale è stata definitivamente violata ed ogni sforzo per ricostituirla è destinato ad allargare la corruzione anziché sanarla. Il Crepuscolo, quindi, suona come il canto di una conclusione apocalittica e catartica insieme, di una tragica liberazione che ha solo il nulla come alternativa alla sofferenza e che Wagner preferì fra mille altre possibili soluzioni della sua tetralogia per influsso del pessimismo di matrice schopenaueriana.

Il Crepuscolo, insomma, racconta di un lungo, progressivo cammino verso una pace che assomiglia molto al vuoto, al nulla di certe tradizioni religiose orientali, ove la vita stessa, con le sue infinite espressioni individuali, è causa di peccato e solo il ritorno ad un’unità oggettiva ed indistinta può riportare l’armonia. Va anche detto, però, che il tema del sacrificio redentore, così tipicamente cristiano, giunge nel finale dell’opera ad umanizzare questa corsa verso l’annullamento.

E’ un racconto, quello del Crepuscolo, a tratti farraginoso, poco felice in certe soluzioni, come il filtro d’amore che trasforma l’eroe Siegfried in uno stolido bietolone; ma un racconto che la musica accompagna ora con un fluire lento e solenne ora con una pienezza travolgente simile allo scorrere delle acque del fiume Reno, sulle cui rive si svolge la gran parte della vicenda. Una musica ove, dopo i toni epici delle prime tre parti della tetralogia, tornano ad echeggiare le voci degli uomini, che vi portano una familiarità ed una vitalità fino ad ora inusitate, la festosità semplice di una civiltà rude e ferrigna; e ove il confluire di molti dei leit motiv già ascoltati in precedenza, sapientemente rielaborati e rinnovati, intrecciati fra loro oppure ad altri nuovi, gratifica ed appassiona l’ascoltatore, che è invogliato a scoprire presenze musicali familiari eppure mai uguali a se stesse.

Grande mediatore fra musicista e pubblico di questa sublime ed emozionante cattedrale di note è il maestro concertatore e direttore Jeffrey Tate, che conferma la sintonia con l’universo wagneriano già dimostrata alla Fenice in “Walküre” e in “Siegfried”. Anche questa volta la bacchetta inglese dà vita ad un’interpretazione di sommo equilibrio nel senso più completo e nobile del termine, impressionando per la precisione analitica del suo approccio e per il nitore del suono, ma non rinunciando mai ad emozionare. Tate racconta con partecipazione, condividendo le emozioni che si manifestano sul palcoscenico, ma conservando sempre la piena padronanza di quell’articolato e complesso strumento che è l’orchestra. Quella della Fenice, poi, come sempre le capita quando è guidata da una personalità artistica di spicco, risponde con pienezza e bellezza di suono, dando il meglio di sé; così come il coro del teatro diretto da Claudio Marino Moretti.

Accanto a Jeffrey Tate e in piena comunanza di intenti artistici con lui, l’altro grande artefice dello spettacolo è il regista canadese Robert Carsen, con l’ausilio di Patrick Kinmonth per scene e costumi e di Manfred Voss per le luci. Carsen ripropone l’ambientazione iperrealistica di “Walküre” e “Siegfried”, che descrive, fra ferraglie, rifiuti e divise militari, una civiltà cupamente in crisi. In questo caso, però, il gioco riesce ancora meglio, perché si è giunti all’ultima giornata dell’Anello, al crepuscolo degli dei appunto, e la decadenza, prima solo latente, ora può manifestarsi in tutta la sua virulenza.

Il regista identifica nel disastro ecologico e nel trionfo della violenza, fisica e morale, i segni della corruzione di una società ove l’amore è stato respinto per lasciare posto all’avidità del potere e della ricchezza. Il disastro ambientale è illustrato nella scena delle Figlie del Reno, che, private dell’oro che simboleggiava e insieme garantiva la purezza primordiale dell’universo, sguazzano non più fra le acque spumeggianti del Reno ma all’interno di un rigagnolo fangoso ridotto a discarica; un grande momento di teatro, in cui Carsen dà prova di tutto il suo talento nella descrizione vivacissima e perfettamente aderente al dettato wagneriano delle tre mitiche fanciulle, che cercano invano di strappare a Siegfried l’anello ora con la seduzione ora con la minaccia. E poi c’è la violenza, presenza costante nella reggia dei Ghibicunghi, che Carsen legge come la sala di governo di una dittatura militare tanto pomposa all’esterno quanto corrotta e fragile all’interno, ove i rapporti umani sono falsi e malsani, marci alla radice.

Ma tutto questo a poco servirebbe se Carsen non fosse quello straordinario demiurgo che conosciamo, capace di lavorare con risultati straordinari sui singoli personaggi. Ad ognuno di essi è così conferita un’identità unica, spiccata, che non è il frutto di un’invenzione arbitraria del regista ma di un lavoro scrupoloso e geniale diretto a cogliere l’essenza originale dei protagonisti così come l’ha intuita Wagner.

Basti vedere cosa Carsen riesce a fare di Brünnhilde, cui dona una personalità femminile calda, sensuale, vibrante; così deve essere, infatti, una dea che è diventata donna scoprendo l’amore per un uomo e si culla beata in questa nuova dimensione fino a quando la rivelazione del tradimento involontario di Siegfried e della ripugnante realtà in cui è maturato le fanno incontrare l’altro lato della femminilità, quello della sofferenza, sublimata alla fine nel dono di sé. Non è un caso, infatti, come sottolineano Luca Zoppelli e Michele Girardi nel programma di sala, che nel finale del Crepuscolo, mentre Brünnhilde è pronta a gettarsi nel fuoco che sta per estendersi ovunque e nel quale arde già la salma di Siegfried, svolga un ruolo dominante un motivo conduttore che si era sentito una volta soltanto durante l’intera tetralogia: quello di Sieglinde, che, in “Walküre”, apprende che potrà portare a compimento la sua maternità grazie al sacrificio di Brünnhilde. Un sacrificio ben fecondo, questo, come tutti quelli dettati dall’amore; altrettanto lo sarà, quindi, perché accompagnato dallo stesso tema musicale, quello che ancora Brünnhilde compie alla fine del Crepuscolo, che si apre, così, alla speranza di una nuova alba ove la luce torni a risplendere pura su di un universo restituito all’innocenza. Questa concezione catartica e non disperata del finale dell’opera, del resto, è condivisa da Carsen, che fa piovere su Brünnhilde avviata all’estremo sacrificio una pioggia nebbiosa di grande effetto teatrale, come un battesimo rigeneratore.

Peccato che il soprano USA Jayne Casselman non sappia unire, alla vibrante adesione scenica alle intenzioni di Carsen, una prestazione vocale di pari livello. Lo strumento sembra inadeguato al ruolo, difetta di smalto e di lucentezza, per cui tende a forzare in alto mentre suona un po’ vuoto, come ovattato, al centro.

Siegfried è visto da Carsen come un buzzurrone grossolano, un bullo di periferia sempre in tuta mimetica capace anche di rendersi ridicolo, a comprova che lo sfacelo di tutto non lascia indenni neppure gli eroi. Il tenore tedesco Stefan Vinke, già visto in “Die tote Stadt” che ha inaugurato la corrente stagione d’opera alla Fenice, ostenta saldezza e resistenza vocali ammirevoli, doti non da poco in Wagner, e quando vuole sa anche alleggerire le dinamiche. Ma si richiederebbero meno declamazione e più canto, timbro più morbido e anche un’emissione più controllata, per evitare che l’acuto sconfini nel grido.

Straordinaria anche la caratterizzazione che Carsen dà del “trio del male”, per così definirlo, anche se l’anima nera di fatto è soltanto una e cioè Hagen. Questi è visto come un consigliori maneggione in doppiopetto, che sa come tenere sotto il suo controllo il dittatore Gunther e la sorella di lui Gutrune, alternando l’astuzia con il primo e la violenza, anche sessuale, con la seconda. Nella lettura del regista canadese perde, ovviamente, i suoi connotati più aggressivamente primitivi per acquistare una personalità più sfaccettata, dominata dall’ambiguità. Il basso-baritono israeliano Gidon Saks ne dà un’interpretazione di rilievo sul piano teatrale e vocale, anche se l’imponente strumento dà qualche segno di discontinuità.

Gutrune è una donna immatura che si comporta come un’adolescente, succube di Hagen ma anche di Siegfried, che se la trascina di qua e di là come una bambola di pezza. E’ una povera creatura che subisce gli avvenimenti e recupera un po’ di dignità solo davanti al cadavere di Siegfried. Il soprano tedesco Nicola Beller Carbone ne dà un’interpretazione del tutto convincente anche sul piano vocale.

Il fratello Gunther è un debole manipolato da Hagen, pronto a rifugiarsi nell’alcool non appena le cose vanno male. Anch’egli trova una nuova saldezza morale con la morte di Siegfried, come se la scomparsa dell’eroe facesse svanire di colpo l’incubo malsano evocato da Hagen e permettesse a tutti un salutare ritorno alla realtà. Il baritono svedese Gabriel Suovanen è bravissimo in scena ma vocalmente è “corto” e, non appena la partitura sale, va in difficoltà.

Nella breve ma fondamentale parte di Alberich è completamente a posto il basso-baritono belga Werner Van Mechelen. Eccellente, per la bellezza e la pienezza del timbro scuro, il mezzosoprano viennese Natascha Petrinsky nel ruolo di Waltraute, la sorella di Brünnhilde. Delle tre Figlie del Reno, bravissime scenicamente ma anche vocalmente, si è già accennato. Altrettanto brave le tre Norne, rappresentate come donne di servizio che tessono i fili del destino del mondo spazzando uno squallido magazzino ove si ammucchiano mobili vecchi, simbolo di una civiltà che ha ormai esaurito la sua funzione.

Alla domenicale cui si riferiscono queste note gli applausi più caldi sono stati riservati a Tate, i (moderati) dissensi all’interprete di Brünnhilde. Ma l’emozione, per chi l’ha vissuta dal vivo, è stata grande.

Adolfo Andrighetti

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