Ora è “Traviata” ma per Verdi era “Amore e Morte”
La visione di Carsen, regista ricco di talento e insieme rispettoso delle leggi del teatro in musica, è suggestiva eppure parziale. Suggestiva, perché mette giustamente in evidenza l’ambiente sociale e psicologico in cui il dramma di Violetta si svolge: un demi-monde parigino amorale ove le donne, spesso ragazze giovanissime provenienti dalla campagna, si comprano e si vendono con disinvoltura elegante in un turbinio di sesso e champagne alimentato dal denaro dei ricchi protettori. Ma, insieme, una visione parziale, perché il senso profondo del dramma sta proprio nel miracolo di un amore vero che sboccia in mezzo al fango e che viene soffocato sul nascere da una società ipocrita che tollera il meretricio d’alto bordo ma non il desiderio di riscatto della sua più prestigiosa cortigiana. E’ quindi sul contrasto fra la purezza del sentimento di Violetta ed Alfredo e l’impossibilità di coltivarlo in quell’ambiente sociale che si gioca la vicenda e la sua efficacia evocativa anche per la sensibilità di oggi.
Forse è a causa della peculiare visione di Carsen che la parte più incisiva del suo spettacolo, peraltro molto riuscito nel suo insieme e già apprezzato nel novembre 2004 per l’inaugurazione del teatro ricostruito dopo l’incendio, è rappresentata, più che dai momenti in cui c’è da raccontare l’amore fra i due protagonisti, dalla pittura d’ambiente; cioè dalla eccellente, livida ricostruzione, come in un incubo da eccesso di alcool e di pastiglie, di un mondo estenuato e stordito dalla ricerca compulsiva del piacere, svuotato di emozioni sincere e di relazioni umane autentiche, perché le prime sono artificialmente indotte dal sesso mercificato o da altri strumenti di stordimento, le seconde sono condizionate dalla presenza onnipotente del denaro. Questa realtà, che occulta dietro i lustrini una tragica povertà di valori e sentimenti, viene magistralmente descritta da Carsen e dai suoi collaboratori (Patrick Kinmonth per scene e costumi, Philippe Giraudeau per le coreografie, Peter Van Praet con lo stesso Carsen per le luci); i quali, fra l’altro, colgono in pieno e rappresentano con grande efficacia teatrale lo spirito della musica brillante ma meccanica, priva di corpo come un frizzantino dozzinale, volutamente composta da Verdi a rappresentare l’inconsistente superficialità di certe baldorie e di chi vi partecipa.
In questi salotti parigini Violetta si muove da regina, elettrizzata dalle notti insonni scialate nel divertimento e dal lusso che la generosità dei suoi ricchi protettori le concede. Ma ciò che le sembra la realizzazione di una inebriante visione della vita come libertà e piacere, in realtà è schiavitù, perché la costringe a rinunciare alla parte più intima e raccolta della propria femminilità. Se ne accorge quando incontra Alfredo e il sentimento semplice e disinteressato di lui; ma a quel punto, secondo la visione romantica che considera l’amore uno stato d’animo così assoluto da non potersi realizzare nella dimensione della quotidianità, sarà la morte a portare a compimento la parabola esistenziale dela “traviata”, dalla farfalla impazzita del primo atto alla donna capace di sacrificio e di perdono dei due successivi.
Patrizia Ciofi, ormai famoso soprano senese (di Casole d’Elsa, forse ci tiene conoscendo il simpatico campanilismo di quelle terre), indossa il personaggio come una seconda pelle ed emoziona dalla prima all’ultima nota con un’interpretazione di grande intensità, sostenuta dalla piena padronanza del ruolo, dalla consueta impeccabile impostazione vocale, da una pienezza e rotondità della zona centrale che ancora non le conoscevamo, dalla credibilità della figura agile e minuta. Se aggiungiamo la grinta ma anche lo charme della leonessa del palcoscenico, che lascia quando vuole i segni dei suoi artigli sugli spettatori, diamo piena ragione di un meritatissimo successo al calor bianco.
Il suo Alfredo, combattuto fra l’amore per la bella cortigiana e il calore rassicurante del nido familiare, è il giovane tenore aretino Vittorio Grigolo, al suo esordio alla Fenice. Il cantante è ben impostato e riesce con successo ad alleggerire l’emissione per conferire colori lirici ad un timbro dalle screziature baritonali. Grazie anche alla figura giovane, disinvolta ed aitante, il personaggio è risolto con piena credibilità. Evitabile, però, la brutta e inutile puntatura al termine della cabaletta “O mio rimorso, o infamia”.
Il baritono bulgaro Vladimir Stoyanov, Giorgio Germont, usa con ammirevole abilità uno strumento molto buono senza essere straordinario, maneggiando con padronanza i fondamentali della scuola di canto italiana: legato, omogeneità di emissione, dizione chiara, fraseggio variato. Non è poco.
I numerosi comprimari sono apparsi tutti molto bravi e ben caratterizzati sul piano teatrale grazie al consueto, accurato lavoro svolto sui singoli personaggi da Robert Carsen. Particolarmente preciso ed efficace il contributo del coro della Fenice istruito da Claudio Marino Moretti
Sul podio, il maestro coreano Myung-Whun Chung. Per lui un grande successo pieno di affetto, tant’è che ad ogni sua entrata ad inizio atto il mio vicino di poltrona lo accoglieva battendo ritmicamente sul pavimento con i piedi, nella evidente convinzione che il normale applauso non producesse decibel sufficienti ad esprimere tutto l’entusiasmo. In effetti Chung fa parte di quel ristretto gruppo di direttori d’orchestra e concertatori che, quando affrontano la partitura di un’opera anche popolarissima come “Traviata”, la restituiscono al pubblico rigenerata, rinfrescata, conferendole una fisionomia diversa da quella talmente conosciuta da rischiare di risultare ormai trita. Così dall’orchestra della Fenice il suono esce nitido, pulito, smagliante, sempre sostenuto e mai abbandonato a se stesso. Chung sa conferire vitalità e senso ad ogni cellula sonora, ad ogni accompagnamento, staccando tempi ora di quasi estenuata lentezza (il duetto “Parigi o cara”, giustamente restituito alla sua dimensione di oasi estaticamente onirica nel flusso della cruda realtà) ora di una vivacità elettrizzante (le feste del primo e secondo atto).
Alla domenicale cui si riferiscono queste note, successo calorosissimo per tutti; con le stigmate del trionfo per Myung-Whun Chung e Patrizia Ciofi.
Adolfo Andrighetti