Asterisco Informazioni di Fabrizio Stelluto

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Passioni ed intrighi barocchi al Teatro Malibran

13/10/2009
Sembra di vederlo il giovane Händel, fresco dei suoi 24 anni, mentre si aggira per le calli e i campielli della Venezia del 1709, avviata inesorabilmente verso il tramonto ma ancora capace di accendersi per la gioia di vivere in occasione delle feste comandate, come quel 26 dicembre doppiamente gaudente perché strascico del Natale e insieme avvio della stagione del famoso e tumultuoso carnevale veneziano. Una giornata, quel Santo Stefano di trecento anni fa, memorabile per il giovane musicista, in quanto la sua opera “Agrippina” vi ottenne, al teatro Grimani di san Giovanni Grisostomo e su libretto attribuito allo stesso proprietario del teatro, il cardinale Vincenzo Grimani, un successo straordinario, che avrebbe lanciato il compositore verso la gloria internazionale culminata nei trionfi di Inghilterra.

Ancora una volta, insomma, la Serenissima, che aveva già ospitato nel suo rutilante ambiente teatrale il primo svilupparsi del melodramma nel secolo precedente, sapeva dimostrarsi accogliente verso i veri talenti e consacrarne definitivamente i meriti. Impresa tanto più considerevole se si pensa che la maggior parte della musica di “Agrippina” non era nuova ma presa in prestito da precedenti lavori dello stesso Händel e di altri autori. E se è vero che simili “pasticci” erano prassi comune allora e tali rimasero almeno per un altro secolo, è però altrettanto vero che la proposta di una musica inedita era particolarmente apprezzata dal pubblico, che la considerava un evento culturale e mondano da non perdere. In ”Agrippina” la musica “nuova” era limitata a soli 7 numeri sui 48 totali e qualche polemica ne seguì. Ciò nonostante l’opera fu replicata per 6 settimane in un entusiasmo incontenibile, mentre al giovane compositore venivano rivolte quelle acclamazioni – viva il caro Sassone! – che lo accompagnarono poi per tutta la vita.

Ora che “Agrippina”, in occasione del 250° anniversario della morte di Händel, viene riproposta nello stesso teatro ove fu rappresentata per la prima volta e cioè l’attuale Malibran, si ha modo di interrogarsi nuovamente sulle ragioni di un successo così clamoroso. Parte del merito va ascritta senz’altro alla vicenda e ai versi ideati, secondo l’ipotesi più attendibile, dal cardinale Vincenzo Grimani, appartenente alla nota famiglia patrizia veneziana e vicerè di Napoli per incarico degli Asburgo. Il porporato, in un’epoca ove il melodramma era ancora teatro di parola e di musica con pari dignità, immagina una commedia divertita e spregiudicata anche se non priva di accenti drammatici, ove le mene dei personaggi si aggrovigliano e si sovrappongono nell’eterno gioco dell’ambizione e dell’eros. C’è chi suppone che quello fosse il ritratto, quanto realistico e quanto esasperato a fini satirici ovviamente non è dato sapere, della corte papalina di Clemente XI, con il quale Grimani aveva avuto occasione di confrontarsi spesso difendendo gli interessi degli Asburgo. C’è chi vi vede, invece, l’atteggiamento ironico e disilluso della classe dirigente veneziana verso Roma, a conferma che certe insofferenze di oggi hanno radici antiche.

Comunque sia, in un libretto che sembra già ispirato all’amoralità disincantata e realisticamente sorridente dell’illuminismo, il girotondo degli intrighi è animato dalla protagonista Agrippina, moglie dell’imperatore Claudio nella finzione ma anche secondo la storia. Agrippina fa di tutto perché venga nominato Cesare, cioè successore designato dell’Augusto Claudio, il di lei figlio Nerone, avuto da un precedente matrimonio; per realizzare questa aspirazione non si risparmia e non risparmia le macchinazioni, servendosi anche della bella Poppea, che piace al marito quanto al figlio. Dopo tutti questi ”petini”, per dirla alla veneziana, si potrebbe pensare che Agrippina venga scoperta e sbugiardata, onde far trionfare la morale tradizionale. Invece no. Il cardinale librettista sorprende ancora e a trionfare non è l’onestà ma l’intraprendenza di Agrippina, che riesce a trarre partito anche dallo svelamento dei suoi maneggi, fatti passare come segni di devozione verso l’imperatore. E così il sipario cala, fra la soddisfazione generale, su Nerone asceso al trono e Poppea che sposa Ottone.

E’ possibile, assistendo allo spettacolo in scena al Malibran, ritrovarvi le ragioni psicologiche ed estetiche del clamoroso successo del 1709; anche se la messa in scena realizzata dalla Facoltà di Design e Arti IUAV di Venezia risulta troppo scolastica, troppo asciutta ed essenziale per poter rievocare, aggiornandolo ai tempi nostri, lo spirito della drammaturgia barocca, che voleva stupire ed emozionare lo spettatore non solo con la musica, che non veniva seguita con la stessa attenzione di oggi, ma anche con l’allestimento, la cui grandiosità compensava i momenti di stanca della partitura. Certo, oggi i nostri sensi sono smaliziati dalle seduzioni aggressive di cinema e televisione, per cui non ci stupiamo né ci incantiamo più come i veneziani di tre secoli fa. E sarebbe anacronistico, oltre che troppo dispendioso, ricostruire i fastosi allestimenti barocchi. Tuttavia, la meraviglia suscitata dalle macchine di scena dell’epoca può oggi essere rinnovata dalla fantasia e dalla creatività degli artefici dello spettacolo. La regia dell’”Agrippina” vista al Malibran, invece, sembra troppo prudente, troppo perbene, quasi timorosa di sbagliare. E invece sbagliate, cari studenti (e i vostri tutors), osate, scamdalizzateci: così facevano i vostri antenati barocchi, fatelo anche voi...E’ una regia che mostra delle intuizioni convincenti, soprattutto sul crinale grottesco ed umoristico, ma non le sviluppa, non va fino in fondo; è ancora troppo educata per un irriverente pasticcio come quello messo in versi dal cardinale Grimani.

La scenografia, poi, così astrattamente geometrica, sembra la meno adatta ad ospitare le vicende di Agrippina e degli altri, pervase di realismo e comicità. Né il disegno luci riesce a trasmettere un po’ di calore e di vita all’asettico impianto. Infelice, soprattutto, l’idea di far attraversare il palcoscenico da due pareti che corrono dal fondo verso la platea, soffocando il gioco teatrale all’interno di uno spazio angusto e anche poco funzionale. Semplicemente brutti i costumi, privi di una chiara identità storica e stilistica, tranne forse quelli di Agrippina e Poppea.

A riportarci indietro nel tempo e a riempirci, per così dire, di barocca meraviglia è invece l’esecuzione musicale, animata da quell’insostituibile specialista che è Fabio Biondi. Questi, alla guida dell’orchestra della Fenice, infonde nell’arcaica partitura una rinnovata vitalità, che elettrizza nei momenti più impetuosi e trascinanti e commuove in quelli sentimentali ed elegiaci. Fare musica barocca significa anche possedere questa capacità di coinvolgere il pubblico, di afferrarlo e tenerlo sulla corda per più di tre ore senza allentare mai la gioiosa tensione che lo unisce agli esecutori nella condivisione di un’esperienza bella ed emozionante.

Biondi è ben assecondato nei suoi propositi artistici da una compagnia di canto nel complesso più che apprezzabile. Il basso veneziano Lorenzo Regazzo dimostra di aver acquisito piena familiarità con questo repertorio, non solo per la padronanza con cui risolve anche in chiave comica le insidiose colorature, ma anche per la baldanza con cui offre senza inibizioni al pubblico un Claudio macchiettistico, istrionico e ridicolmente smargiasso, filologico perché memore dei lazzi della commedia dell’arte e perché quella, esibita e un po’ volgarotta, era la comicità che il pubblico si attendeva anche nel teatro in musica.

Straordinario il primo atto di Veronica Cangemi come Poppea, il cui primo attacco, tanto per gradire, è una bella messa di voce. Per ottanta minuti il soprano argentino dà lezione, dimostrando con quale calore, passione, varietà di espressioni, sensualità, ironia, vada eseguito il repertorio barocco. Ne è prova l’arietta del primo atto “E’ un foco quel d’amore”, con cui Poppea alza bandiera bianca di fronte alle ragioni dell’eros e lo fa, per il tramite di Veronica Cangemi, con una trepidazione commossa e stupefatta da mettere i brividi. Purtroppo l’artista dà segnali di stanchezza nel corso del secondo atto e, pur riprendendosi nel terzo, non riesce o non ha più modo di mettersi in evidenza come nel primo.

Molto applaudita l’Agrippina del mezzosoprano svedese Ann Hallenberg, nonostante una veniale amnesia all’inizio dell’opera presto rimediata. L’artista, in effetti, sa essere simpatica e comunicativa, ostentando per di più uno strumento robusto e risonante che è una manna per chi non ama i suoni fissi e flebili di certi specialisti soprattutto di scuola anglosassone.

Dei due controtenori, lo spagnolo Xavier Sabata come Ottone e il rumeno Florin Cezar Ouatu come Nerone, il primo si è fatto apprezzare per l’intonazione precisa e la morbidezza dell’emissione, che lo hanno messo in evidenza nel canto patetico (che belli gli attacchi dei suoi “lamenti”...); il secondo ha timbro igrato, che finisce per condizionare le sue buone intenzioni musicali ed interpretative.

Della coppia buffa Pallante-Narciso meglio il primo, il basso Ugo Guagliardo, di ottimi mezzi e ben presente in scena, rispetto al secondo, il contralto Milena Storti, interprete anche di Giunone, vocalmente ben impostata ma quasi dimessa nella sua prestazione. Sicuro come sempre Roberto Abbondanza nel ruolo di Lesbo.

Alla domenicale cui si riferiscono queste note, successo molto caloroso più o meno per tutti ed in particolare per Fabio Biondi.

Adolfo Andrighetti

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