No della Corte europea al marchio cannabis per le bevande
Tutta la vicenda è iniziata nel 2003, quando il signor Torresan ha ottenuto dall’Ufficio dei marchi comunitari, l'UAMI, la registrazione del marchio "cannabis" per birre, vini e distillati. In seguito, il marchio è stato dichiarato nullo dalla stessa UAMI, su richiesta di una ditta tedesca, che contestava l'uso del termine. Ma Torresan porta il caso alla Corte europea sostenendo che la parola "cannabis" è allo stesso tempo un nome comune e un marchio di fantasia, senza alcuna relazione con le caratteristiche di birre e altri alcolici. Il segno "cannabis", sostiene l'imprenditore, "era presente sul mercato italiano come marchio fin dal 1996 e, dal 1999 ha acquisito una notorietà considerevole come marchio comunitario per birre, vini e spiriti", senza tuttavia avere alcun legame descrittivo con il prodotto al quale si accompagna.
Ma secondo la Corte c'è un'incongruenza inaccettabile. I tre possibili significati della parola "cannabis", secondo la Corte, sono: pianta tessile, sostanza stupefacente e sostanza utilizzata per scopi terapeutici. La parola è utilizzata nel settore alimentare per la fabbricazione di tè, oli e tisane ma anche paste, prodotti di panetteria e biscotteria, senza però che la sua presenza – molto limitata - provochi alcun effetto stupefacente. L'esatto contrario, dice la Corte, di quanto potrebbe pensare un consumatore mediamente attento e informato, che sarebbe invece stimolato a comprare il bene attratto dalla possibilità di ottenere le stesse sensazioni ottenute dal consumo della cannabis. L'imprenditore avrà due mesi di tempo per impugnare la decisione del Tribunale ma limitatamente alle questioni di diritto.
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