Il futuro di tutti si gioca a Copenaghen
Naturalmente è possibile che non venga raggiunto nessun accordo, anche solo politico. E che le rivendicazioni dei paesi più poveri e degli emergenti, ossia di quelli che finora hanno inquinato meno ma che si trovano ad essere i più danneggiati dalle emissioni "storiche" dei paesi ricchi, facciano saltare il banco. I meccanismi multilaterali sono difficili e le dinamiche che si possono innescare, imprevedibili. Bisogna comunque far prova di ottimismo, anche perché il genere umano non può permettersi di fallire questo banco di prova di grande responsabilità.
Il Segretario Generale dell'ONU Ban Ki Moon ha dichiarato a settembre, al ritorno da un viaggio al Polo Nord, che stavamo correndo vero un abisso col piede pigiato sull'acceleratore. Il 97% degli scienziati studiosi del fenomeno surriscaldamento ci dicono che la Terra si sta scaldando per colpa delle emissioni causate dall'attività umana. Anche i climatologi cinesi e americani ammettono la gravità del fenomeno e sui rischi e costi, non solo economici, che questo sta causando. L'obiettivo è quello di contenere il riscaldamento entro due gradi centigradi, temperatura oltre la quale si entra in uno scenario di rischi crescenti di catastrofi ambientali e di irreversibilità del fenomeno. E allora, cosa si aspetta a firmare? La consapevolezza del rischio e delle soluzioni necessarie non basta a sciogliere il nodo più importante del negoziato, ossia la ripartizione degli ingenti costi legati al drastico taglio delle emissioni necessario, già a partire dal 2020, per invertire il trend e dimezzarle entro il 2050.
Siamo di fronte a un gigantesco problema di equità: chi ha inquinato finora sfruttando quasi fino al massimo la capacità di contenimento di gas serra nell'atmosfera, dovrebbe farsi carico dei tagli più importanti. I nuovi "inquinatori", ossia i Paesi emergenti (a cominciare da Cina, India e Brasile) e i paesi in via di sviluppo, che saranno i grandi inquinatori del domani, devono partecipare seriamente allo sforzo di riduzione, altrimenti i tagli dei paesi ricchi non basteranno. Senza uno sforzo serio iniziale dei paesi più ricchi, USA, UE e Giappone in testa, è molto difficile chiedere sacrifici agli altri.
L'UE ha preso la leadership della "rivoluzione verde" verso un'economia mondiale a basso tenore di carbonio assumendo impegni unilaterale già giuridicamente vincolanti (-20% di emissioni entro il 2020) che condizionano pesantemente il negoziato e spingono gli altri grandi player a impegni comparabili. Inoltre l'UE, in caso di sforzi reali verso un accordo davvero ambizioso, è pronta a mettere sul piatto ulteriori tagli, fino a un - 30%, sempre entro il 2020.
Basterà lo sforzo europeo e la volontà già più volte manifestata da Giappone, Cina e USA a portare buon fine il negoziato? Queste potenze economiche insieme sono responsabile di oltre la metà delle emissioni mondiali, ma la loro determinazione ad un accordo potrebbe non bastare. Il gruppo dei 77 paesi emergenti (di cui fa parte anche l'India) e i paesi più poveri potrebbero tirarsi fuori. A meno che non vi siano risposte sostanziali alle loro richieste di aiuto per attuare politiche compatibili con il loro bisogno di crescere, ossia importanti sostegni economici e trasferimenti di tecnologie e know how da parte degli industrializzati. Alcune cifre sono da tempo sul tavolo dei negoziati, anche a livello europeo: 5 - 10 miliardi di dollari da erogare subito nei prossimi tre anni; e 100 miliardi l'anno da qui al 2020. L'Europa sarebbe chiamata a pagare circa 1/6 di questa cifra.
E forse proprio nel rilancio di una seria politica di cooperazione verso uno sviluppo davvero sostenibile per quell'ampia parte del mondo che è ancora sostanzialmente escluso dai benefici della crescita economica e tecnologia sta la chiave per sbloccare i negoziati. Il tempo di Copenaghen finisce il 18 dicembre. Quello per "salvare" il pianeta é più lungo, ma forse non molto di più.