Alla Fenice un’amazzone nordica ed una popolana di Sicilia
Una distanza incolmabile, quindi, sembra separare la vicenda della giovane amazzone che si scopre innamorata del suo nemico Ctirad, lo fa uccidere ugualmente per restare fedele all’impegno preso, poi si pente amaramente del suo gesto e si butta sulla pira ove arde il cadavere di lui; e la storia di Santuzza, povera donna di Sicilia sedotta da Turiddu, che però amoreggia con la bella Lola, maritata ad un carrettiere, provocando l’inevitabile catastrofe finale con tanto di delitto d’onore. Anche il verismo assolato e spudorato di “Cavalleria”, con la sua accesa passionalità in partitura, con le sue espansioni melodiche ricche di calore mediterraneo, risulta molto distante dal lirismo intenso e tormentato, sfociante spesso nel tragico, della partitura di Janacek.
L’unica vera parentela fra le due opere, in realtà, è quella cronologica. “Sarka” fu composta nel 1887, quando Janacek aveva 33 anni, anche se fu rappresentata, dopo diverse revisioni, solo nel 1925, al Teatro Nazionale di Brno. “Cavalleria rusticana”, invece, dopo aver vinto il primo premio al concorso per opere inedite indetto dall’editore Sonzogno, fu rappresentata con successo clamoroso e duraturo nel 1890 al Teatro Costanzi di Roma.
Ma veniamo a quello che si sta ascoltando e vedendo in questi giorni alla Fenice. “Sarka”, in prima italiana assoluta, sorprende positivamente per l’afflato lirico impetuoso ed inquieto che, con qualche reminiscenza wagneriana, la percorre tutta e ne fa una partitura di quel tardo romanticismo che è ormai pronto ad andare oltre se stesso aprendosi sul nuovo secolo. Il tutto è reso perfettamente comprensibile dalla direzione e concertazione del grande vecchio Bruno Bartoletti, che restituisce con le consuete chiarezza e nitore l’atmosfera musicale dell’opera.
Quanto si vede sul palcoscenico interpreta con coerenza e sicura resa teatrale il lavoro di Janacek. La regia di Ermanno Olmi imprime ai movimenti delle masse il ritmo di un rituale solenne ed arcaico, mentre le scene di Arnaldo Pomodoro, ben sostenute dall’appropriato light design di Fabio Barettin e dai costumi medioevaleggianti veramente belli di Maurizio Millenotti, ripropongono i simboli più noti ed evocativi del romanticismo nordico: l’atmosfera notturna ricca di echi e suggestioni, la tomba antica ove sono custodite armi dai poteri straordinari, il castello solitario dalle pareti rocciose e imponenti, la grande quercia dai rami nodosi.
Nella compagnia di canto domina nel ruolo di Sarka il soprano tedesco Christina Dietzsch: bella, bionda ed atletica come una valchiria, si impone per la perfetta immedesimazione nel personaggio e per il fraseggio scolpito con incisività e forte impatto drammatico. Le sono deuteragonisti più che dignitosi e di sicura professionalità il principe Premysl, nemico di Sarka e delle amazzoni, del basso-baritono USA Mark Steven Doss e il Lumir, cortigiano del principe, del bravo tenore di Shangai Shi Yijie. Non convince, invece, il personaggio di Ctirad, il guerriero nemico eppure amato da Sarka, nell’interpretazione del tenore Andrea Carè, scialbo sul piano scenico soprattutto rispetto a quell’autentica eroina da mito nordico con cui deve confrontarsi. L’emissione, poi, risulta sempre sovraesposta ed impostata sul forte, tutta di “fibra”, con la conseguenza che il fraseggio diventa impossibile e la voce si strozza non appena accenna a salire.
Dalle fredde brume dell’epica boema si è quindi passati alle arroventate atmosfere mediterranee di “Cavalleria rusticana”. Qui, sin dalle prime note, Mascagni e Bartoletti ci sollevano in aria e ci tengono sospesi e commossi in una dimensione metatemporale e metaspaziale ove dimentichiamo la nostra identità e partecipiamo a quella dei personaggi in scena; fino a quando il duplice proclama “Hanno ammazzato compare Turiddu”, la prima volta gridato e la seconda sussurrato ad amplificarne l’effetto di tragica eco, ci fa ripiombare sulla terra storditi ed esausti, con la pelle d’oca e la sensazione di avere vissuto una rapinosa avventura dello spirito.
Bartoletti, dopo aver stupito nella novità “Sarka” per la sicura lucidità con cui ricostruisce quell’atmosfera tardoromantica intrisa di umori arcaici ed epicheggianti, entusiasma in “Cavalleria”, la cui forza tellurica è restituita senza enfasi ma con una politezza e bellezza di suono quasi sconvolgenti, dall’espandersi ampio e sereno dei passi lirici al serrare rapinoso di quelli drammatici. Si riscoprono così le ragioni musicali di una partitura talvolta avvilita da una prassi esecutiva che ne ha sottolineato gli aspetti più emotivamente superficiali, mentre si rivela tersa come un diamante se, come Bartoletti, si crede nella sua bellezza e la si ripulisce dalle incrostazioni della routine pur non raffreddandola con intellettualismi fuori luogo.
L’impresa riesce anche perché Bartoletti è assecondato da un’orchestra che dà il meglio sotto la sua direzione e da un coro, diretto da Claudio Marino Moretti, ammirevole per impegno, partecipazione e bellezza sonora; e perché l’ottima compagnia di canto viene anch’essa completamente coinvolta dal vecchio stregone. Il mezzosoprano russo Anna Smirnova fa di Santuzza un personaggio da tragedia greca per il profondo senso del dramma che trasmette la sua figura nerovestita e per la vocalità scura, densa, travolgente, una vera e propria eruzione vulcanica. Al tenore Walter Fraccaro, artista di totale affidamento per la ben nota saldezza vocale e di cui abbiamo apprezzato anche una presenza scenica convinta e disinvolta, manca solo la ricerca di un fraseggio più sfumato, che è nelle sue corde tecniche come ha potuto dimostrare anche nell’”Addio alla madre”, per essere un Turiddu di riferimento. Il compar Alfio del baritono Angelo Veccia è di sicuro impatto vocale (meglio “Ad essi non perdono”, comunque, che l’aria di sortita, dove forse lo strumento non era ancora caldo a dovere), ma una più convinta partecipazione teatrale non guasterebbe. Bene ciascuna nella propria parte il soprano Elisabetta Martorana come Lola e il mezzosoprano Lucia Mazzoni come mamma Lucia.
I responsabili dell’allestimento, gli stessi citati a proposito di “Sarka”, immaginano una landa aperta chiusa sul fondo da un profilo di bassi, aridi rilievi e dominata da un vasto, trasparente cielo di Sicilia, che si oscurerà, riempiendosi di nubi tetre e grigie, soltanto al consumarsi del dramma. In questa cornice, ove la chiesa e la casa di Lucia sono intuite ma non visibili, si muove la folla dei compaesani vestiti tradizionalmente di nero e ben spiccanti contro il nitore dell’orizzonte. La concezione dello spettacolo sottolinea la componente religiosa dell’ambiente e della vicenda, collocando al centro del palcoscenico una grande croce alla quale Santuzza si aggrappa nel finale, simbolo di una sofferenza universale che si può vivere come dannazione irredimibile oppure, è il caso di Santuzza e del cattolico Olmi, come parte integrante della natura umana nella speranza della redenzione. E sempre in nome di quella speranza che l’uomo porta nel cuore e che è richiamo potente verso un Bene assoluto di cui si festeggerà la discesa su questa terra il giorno di Natale, va ricordato che il costume di Santuzza è stato realizzato dalle detenute del carcere femminile della Giudecca, nell’ambito del progetto europeo Equal-Rjuscire.
Alla domenicale cui si riferiscono queste note, successo di cortesia per Sarka e al calor bianco, soprattutto per Bruno Bartoletti, al termine di “Cavalleria”,.
Adolfo Andrighetti
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